Algoritmi di conoscenza

La conoscenza è una narrativa, un farsi iterativo di concetti. È un’attività che, a partire dal significato di ogni esperienza, produce il senso del nostro percorso.

Foto di Vlad Bagacian: https://www.pexels.com/it-it/foto/due-uomini-che-camminano-su-una-collina-sotto-le-nuvole-bianche-2819633/

La mia formazione, tuttora in pieno svolgimento, mi appare come un sentiero tortuoso e frammentato, che si perde e si ritrova tra le zolle d’erba e i passaggi pietrosi di alta montagna. L’aria è fine, il silenzio è interrotto dal fischio delle marmotte e io cerco, tra le tracce più o meno evidenti disseminate sul terreno di interpretare a modo mio la linea immaginaria del percorso che si è disegna davanti a me. In questo procedere, ogni passo rimette in discussione i passi precedenti e quelli successivi, in qualche modo li riformula, li ricalcola, li riassorbe, dal momento che non c’è passo senza il quale, anche in una misura insignificante, il sentiero non abbia bisogno di essere rivisitato all’emergere di nuovi punti di riferimento. Per quanto definito dalle mappe, ogni sentiero è individuale. Si costituisce in un continuo distrarsi e rifarsi a opera dei sensi, mostrando immediatamente un’alternativa di itinerario che fino a quel momento era rimasta sullo sfondo.

Ma torniamo alla formazione. Se come vuole una certa tradizione orientale, anche la mente è un organo di senso, allora si può trasporre l’esperienza fisica, e insieme sentimentale e intellettuale, della montagna nella costruzione della conoscenza. Anche in questo caso ogni passo compiuto genera di volta in volta un nuovo sentiero. Da una parte la conoscenza è una destinazione verso un obiettivo predefinito, preventivamente indicato dalle mappe. Dall’altra parte, è il paesaggio che prende corpo nello scenario brullo della montagna. Ed è, ancora, lo strumento che accompagna il cammino e che, sostenendolo, lo rende praticabile. In breve, destinazione, paesaggio e strumenti sono una cosa sola, un’unica esperienza immersiva di cui l’immagine del sentiero rende il movimento.

Questa metafora della conoscenza mi è utile per arrivare alla questione. Conoscere è un algoritmo. Non è un oggetto statico posto fuori di sé, se non a cose fatte, come quando mi volto sul sentiero a riguardare la strada percorsa e ne colleziono con gli occhi i passaggi più rilevanti – fuor di metafora: le nozioni, i concetti , i ragionamenti che ho memorizzato. In altre parole, la conoscenza è qualcosa in più dell’esito di una formazione erogata, come un distributore automatico eroga i suoi prodotti; qualcosa in più di un programma, etimologicamente un documento pre-scritto; qualcosa in più di un percorso che viene certificato con la somministrazione di un questionario dal «medico del sapere». In questo senso, imparare e conoscere sono tutt’altro che una degenza, o una via di salvezza, o una terapia volta a contrastare il germe dell’ignoranza. Piuttosto, l’ignoranza è esattamente lo spazio sfuggito alla delimitazione delle carte geografiche che pretendono di confezionare la coinoscenza in un pacchetto turistico e che come si dice, hanno confuso l’eccedenza di un territorio complesso con i segni nitidi e inequivocabili della sua rappresentazione.

In un acuto tratteggio che Federico Campagna fa del mondo della tecnica (Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà, Bloomsbury Publishing, Londra, 2018, trad. it. Edizioni Tlon, Roma, 2021), l’eta contemporanea viene descritta come il risultato dell’azione di una forza cosmogonica che ha plasmato la realtà del nostro tempo. Una forza cosmogonica è un principio capace di incarnarsi in un’epoca storica determinandone la forma e le sue espressioni, e ogni cambiamento è possibile solo se irrompe sulla scena una nuova forza egemone. Nel caso dell’età della tecnica, il principio primo del reale, la forza cosmogonica appunto, è il “linguaggio assoluto”, cioè un linguaggio che ha assunto in sé la prerogativa della verità. Esiste solo ciò che è traducibile in linguaggio e vige il criterio tipicamente moderno, messo a suo tempo in movimento da Kant, per il quale «ogni verità è rappresentazione e ogni rappresentazione è verità».

Nelle lingue attualmente parlate, almeno in Occidente, il linguaggio si struttura come una sequenza di posizioni grammaticali: le sequenze di lettere formano le sillabe; le sequenze di sillabe formano le parole; e così le parole formano le frasi; le frasi, i periodi; e questi ultimi un testo compiuto, La trascrizione della realtà come linguaggio e rappresentazione è, in sostanza, la catalogazione delle esperienze in una serie, cioè in una successione omogenea di elementi che si differenziano tra loro per la sola posizione. Possono essere numeri, dati, nozioni, notizie, titoli azionari, cittadini, post, video distribuiti su piattaforme, corsi tematici, prodotti di largo consumo, app, serie televisive, ecc.

Per prima cosa, ogni esperienza che non è traducibile in linguaggio, cioè in una rappresentazione e, dunque, in una serie – poniamo, per esempio, l’esperienza problematica dell’inconscio – non entra a far parte del catalogo e viene rimossa dall’esistente. In secondo luogo, per quanto diverse possano essere le esperienze all’interno della serie, ogni elemento di quest’ultima si equivale ed è privo di un significato suo proprio; in altri termini, è privo di un’esistenza autonoma che lo caratterizza e ne autorizza la realtà. Se, per esempio, un fatto trova posto nella serie delle notizie, è la serie stessa a renderlo reale; mentre, all’interno della serie, ogni notizia ha lo stesso valore di qualsiasi altra notizia a prescindere dalla sua veridicità: vero e falso in questo contesto non hanno ragione di essere distinti. Se lo stesso modello è applicato ai social network, ne deduciamo che gli status pubblicati dagli utenti non hanno valore in sé, ma in quanto record di un database globale. Ne consegue che l’opinione di un utente vale quanto quella di un altro utente, a prescindere dal grado di riflessione impiegata; ma anche che ogni status altro non è se non una collezione di presenti, sempre precari, che si succedono in un eterno presente epurato dal tempo. Nessun ricordo da cui imparare; nessun progetto a medio-lungo termine con il quale immaginare al di là della contingenza. Dunque, nulla a che vedere con la successione dei passi su un sentiero di montagna che stanno l’uno con l’altro in un’intima relazione di senso.

Il fisico e chimico Ilya Prigogine ha messo in discussione un modello analogo di realtà descritto dalle equazioni di Newton, da quelle della relatività e da quelle della meccanica quantistica; cioè dallo stato dell’arte sulle conoscenze scientifiche del mondo fisico. Il principio applicato da Prigogine è semplice: ognuna di queste teorie descrive leggi che sono simmetriche rispetto al tempo; leggi, cioè, che consentono in ogni istante di prevedere il comportamento della materia, tanto nel passato quanto nel futuro, con un margine di approssimazione tra grandezze correlate (tipicamente, posizione e quantità di moto) fissato dal principio di indeterminazione. Detto in altro modo: ogni istante della linea del tempo è una collezione omogenea di elementi che si equivalgono l’uno con l’altro e che esistono solo come rapporto all’interno della serie che li definisce. L’intuizione di Prigogine è stata di osservare che gli eventi naturali non sono mai statici (simmetrici rispetto al tempo), ma sono sistemi lontani dall’equilibrio; la loro staticità è piuttosto un’astrazione, una condizione che incontriamo nel caso limite di un sistema, per esempio biologico, che ha esaurito il suo ciclo vitale. In un contesto dinamico, gli istanti contenuti in una serie temporale non sono più equivalenti tra loro, ma la successione si costituisce a ogni passo con un processo iterativo tipico degli algoritmi. Ogni singolo evento assume rilevanza in quanto tale, determina l’evento successivo e conserva dentro di sé l’intera evoluzione del processo.

Senza scomodare l’immagine di una forza cosmogonica, possiamo attingere, da questa rivisitazione algoritmica della serie, una metafora applicabile alla conoscenza. Conoscere, come del resto è noto dall’esperienza, è un farsi di concetti che si stratificano in un patrimonio immateriale. Conoscere, dunque, è una narrativa, non un’insiemistica. È la costruzione di un senso che si realizza solo nel suo stesso prodursi. In prima battuta, questo implica che non esiste alcuna reale ripartizione tra i diversi saperi, poiché l’evoluzione dell’uno è intrecciata all’evoluzione degli altri: l’arte non è una cosa separata dalla scienza, come la teoria non è separata dalla pratica. Ma, soprattutto, il processo di conoscenza non ha nulla a che fare con l’astrazione di titoli, attestati, diplomi e certificazioni. È quando mi volto indietro e trovo una storia da raccontare che posso dire di conoscere; che posso dire di essermi avventurato su un sentiero che solo a cose fatte apparirà negli statici itinerari delle mappe.

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