Appena sotto la superficie

Osservato appena sotto la superficie, il conflitto diventa relazione, cioè uno strumento per scoprire-costruire il proprio rapporto con il mondo.

Stefano Francoli, Lago di Mergozzo, 2021

Non mi sono mai sentito a mio agio nelle dispute. I miei pensieri si articolano con lentezza, le parole si confondono, le incertezze fanno continuamente fluttuare le opinioni che devo inseguire e afferrare; con il risultato, il più delle volte, di sentirmi disorientato dalle argomentazioni incalzanti e combattive dei miei interlocutori. Ma nonostante la mancanza di prontezza dialettica, il conflitto scatena in me il desiderio di schierarmi dalla parte opposta, di assumere una posizione contraddittoria qualunque sia l’argomento trattato. Cosicché, se mi trovassi ad affrontare, una dopo l’altra, due conversazioni che sostengono tesi completamente diverse, rischierei di trovarmi in una scomoda divergenza persino con me stesso.

Non posso dire dunque che il conflitto, anche se inespresso e sotterraneo, non sia presente in maniera diffusa nella mia esperienza di vita. Nelle questioni famigliari ho rimproverato spesso alla mia compagna il tentativo di fuggire dall’elemento della discordia, proprio perché la definizione di «compagna», che qui voglio utilizzare, sottolinea la disponibilità a mettere in gioco l’equilibrio della relazione in favore di un viaggio tempestoso che possa illuminare di luce nuova l’orizzonte verso il quale ci muoviamo. E forse, ancor di più, gioca nel termine «compagna» l’amore per la discussione quando questa sia accompagnata dal godimento del cibo – «compagno» è colui con cui condivido il pane – e della presenza reciproca.

Al contrario del ruolo accondiscendente che qualche volta sento di interpretare, avverto perciò il conflitto come una condizione ineludibile dell’esistenza; anzi, come un elemento strutturale che, soprattutto, nel colloquio e nel confronto con me stesso sento agitarsi senza sosta.

D’altra parte, l’insegnamento che negli ultimi cinque anni ho ho tratto dall’esercizio della comunicazione empatica – esercizio, peraltro, già di per sé niente affatto pacifico, poiché fonte di una continua e inesauribile sfida – è stato quello di trasformare il conflitto in una visione dinamica, in un percorso, in una relazione intorno alla quale far ruotare un processo di cambiamento che mi riguardi in prima persona.

In questo senso, il terreno del conflitto diventa una superficie mobile e fluttuante, sulla quale le parole perdono il loro contorno definito, si sfaldano. Le immagini allora che, con tanta facilità, siamo portati a costruirci per leggere una realtà altrimenti caotica e indistinta, che impieghiamo per contrapporre a essa una rappresentazione ideale, utile ma inconsistente, iniziano a prendere vita, a modificarsi, a reinventarsi fino ad assumere forme che qualche volta si rivelano inaspettate. In termini pratici, si potrebbe dire che, appena sotto la superficie, il conflitto diventa una relazione la quale modella progressivamente il significato delle parole. In sostanza, il conflitto è uno strumento per scoprire-costruire il proprio rapporto con il mondo.

Riprendo per questa occasione un celebre frammento di Eraclito: «Padre di tutte le cose è la guerra e di tutte è re: gli uni li rese dei, gli altri uomini, gli uni li fece schiavi, gli altri liberi» (Frammenti, Fr. 12, Bur, 2013). Potremmo interpretare questa sentenza come un’indagine sulla natura più profonda dell’essere umano. Quest’ultimo, infatti, è tale in virtù della sua capacità di distinguere le cose, di separarle le une dalle altre, di assegnare loro nomi e categorie; vale a dire, di contrapporle tra un primo piano e uno sfondo senza la differenza tra i quali la realtà neppure potrebbe esistere, né a essa potremmo sopravvivere. Allo stesso tempo, quest’arma tutta umana contiene in se stessa la sua contraddizione, che si rivela quando questa separazione arbitraria viene presa alla lettera come vera e inappellabile. Basti pensare alle ripartizioni tra maschile e femminile, tra individuo e collettività, tra interiorità ed esteriorità, tra corpo e anima, e, in definitiva, tra soggetto e oggetto. Tutte prigioni in cui ci siamo rinchiusi e che alimentano uno scontro sterile, privo di qualsiasi forza generativa.

Andare appena sotto la superficie è un po’ come esplorare la soglia che contraddistingue l’umano e che, come afferma Eraclito, può renderlo libero o schiavo di se stesso. Per quanto mi riguarda, la strategia migliore che ho trovato per inoltrarmi in questo mondo altro – un mondo che non può essere più che un’intuizione – è stata quella di arrendermi alle alle mie stesse debolezze. In fondo, ho fatto di necessità virtù. Ciò che mi rende impreparato al conflitto è anche il mezzo che me lo fa attraversare. In lontananza vedo solo questo: un equilibrio su cui galleggiare, come quando, appena sotto la superficie, si nuota passivamente a corpo morto.

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