Biglietti da uno
Superare i limiti è un modo di dominare l’angoscia, creata da solitudine e transitorietà della vita. L’altro modo è cercare in essa ciò che ci unisce.

Nelle cose che mi piacciono sono ambizioso e perfezionista, ma quasi mai questo corrisponde a un’azione e a un risultato di cui posso dirmi soddisfatto. Nondimeno, provo disagio, forse irritazione, di fronte al desiderio, culturalmente codificato, di superare i propri limiti, di essere – come si dice per esemplificarne il ruolo sociale – imprenditore di se stesso. Non sono competitivo: non ho mai praticato uno sport e gli assunti che invitano a tendere verso e oltre la perfezione mi suscitano sempre la domanda: «perfezione secondo chi?».
Carol Pearson, nel libro Risvegliare l’Eroe dentro di noi, descrive la nostra come una società dominata da schemi orientati a esaltare gli aspetti maschili, attivi dell’individuo: la sfida, la conquista, l’affermazione di sé. Tralasciando invece quegli accenti ricettivi della parte femminile che permettono di avanzare nel proprio percorso di ricerca, cedendo il passo alle necessarie pause di riflessione senza le quali è difficile maturare piena consapevolezza. Ancora di più, un filosofo contemporaneo come Emanuele Severino rintraccia gli esiti catastrofici e violenti della cultura occidentale nella incontrastata fede verso il divenire di tutte le cose. Superare i limiti, allora, è un modo di dominare l’angoscia generata dal fatto che le cose «escono dal nulla e rientrano nel nulla». È il tentativo di imbrigliare l’ultima estrema paura – quella di non esserci più – con una volontà di potenza che, soprattutto dalla nascita delle macchine in avanti, pretende di recidere definitivamente il vincolo con la nostra innata precarietà.
Ma c’è un altro modo di affrontare la questione. Cercare in quella stessa esistenza ciò che ci unisce; cercare i caratteri universali di un’umanità che, ricomponendo i legami con l’Altro, ci restituisca l’appartenenza a un unico grande Essere umano (un inconscio collettivo direbbe Jung) in cui riconoscersi al di là del tempo. Non è forse per questa via che l’uomo ha creato Dio?
Dai molti, dalle tante inconciliabili facce delle vite individuali, trovare sollievo all’angoscia significa rigenerare l’unità. Non in maniera astratta, ma interessandosi concretamente della vita degli altri nel quotidiano – così come essa si mostra «in carne e ossa», diceva qualcuno.
E pluribus unum – recita il motto degli Stati Uniti d’America. Ma invece di considerare un Uno astratto e impersonale, un successo cui i tanti singoli «biglietti da uno» dovrebbero conformarsi, rovesciamo la prospettiva e pensiamo che l’Uno sia la radice comune verso cui risalire per scoprire la nostra concreta e materica umanità. Cercare l’umanità negli altri aiuta a mostrare quella inespressa dentro di sé. Con buona pace del mio spiccato e tuttora irrisolto individualismo, ho dovuto constatare che questa strada è più benefica di quanto avessi potuto credere.