Comunicare da un altro punto di vista
Comunicare è avere il coraggio di cambiare prospettiva. Riformulare il senso e il significato delle esperienze a partire da un «altro» punto di vista.

Comunicare, per me, è stato, insieme, una sfida costante, una perseverante ricerca e un’attività umana e professionale che ha definito chi sono e che guida chi desidero diventare. La sua pervasiva presenza nella mia vita si è più volte manifestata sotto forma di contraddizione: qualcosa cui sento di essere chiamato e che costituisce al medesimo tempo la mia più grande difficoltà. «Che cosa significa comunicare?» è stata perciò una delle domande più assidue, più frequentate con le quali ho dovuto cercare di instaurare un rapporto, e che, come ogni mancanza, ha trasformato l’argomento in questione – la comunicazione, appunto – nel terreno privilegiato di un’indagine cui affidare il fine ultimo di tutto il mio lavoro: la consapevolezza, la piena e soddisfacente conoscenza di me.
Come è noto, comunicare contiene il seme della reciprocità. La sua radice latina cum-munus sottolinea che l’atto munifico della comunicazione equivale a donare una parte di se stessi sotto forma di ascolto, di tempo, di disponibilità ad accogliere ragioni e punti di vista alternativi alle proprie credenze. Ma questo significato assume implicitamente che l’interlocutore dimostri un’altrettanta sensibilità, poiché non c’è ragione che io debba aprire le porte della mia abitazione interiore se l’ospite che sto per accogliere non presta alcuna attenzione al mio tentativo di tessere un filo comune.
In questo senso, donare e comunicare sono entrambi gesti dal significato problematico. Per un verso, infatti, essi dichiarano una generosa ospitalità verso l’altro e il suo mondo, così potenzialmente differente e disarmante. Per il verso contrario, incarnano invece la sottile pretesa di un riconoscimento; il tentativo di avvinghiare l’altro in un legame articolato secondo regole stabilite da chi parla, così che del dono la persona interessata viene fatta oggetto più che destinatario, ostaggio più che libero ascolto da cui lasciarsi guidare in una curiosa esplorazione.
Nietzsche, in uno dei discorsi di Zarathustra, ci ricorda le doti di una «virtù che dona». Essa è un’azione autentica – potremmo dire: completamente disinteressata – solo se viene compiuta a partire da un’abbondanza di cui non ho bisogno e dalla quale perciò non mi costa liberarmi. Un po’ come un bambino che, pago del suo gioco, lascia l’oggetto con cui si è divertito al desiderio di qualcun altro. Donare è dunque la conseguenza di una ricchezza troppo nauseante per essere tenuta tutta per sé. Ma questa ricchezza va continuamente nutrita per poter restare tale; va mantenuta in vita perché non possa mai appassire.
Tornando sul piano della comunicazione, ciò significa che l’atto del comunicare risulta efficace, potente, persuasivo senza essere prevaricatorio, solo nel momento in cui la sua abbondanza è garantita da un continuo scavo negli strati profondi della propria identità. Comunicare, insomma, trova la sua solidità quando assecondiamo la diffrazione con cui la nostra storia individuale si moltiplica nelle tante storie che abbiamo depositato in noi lungo il corso del tempo, in una memoria fatta di corpo, pensieri e sentimenti. Comunicare è riformulare il senso e il significato delle esperienze che ci portiamo addosso a partire da un «altro» punto di vista. È fare posto a questo «altro dentro di noi», è lasciare che il volto con cui ci raccontiamo assuma, come in un quadro cubista, molte voci e facce diverse tra loro.
In definitiva, la mancanza che spinge a chiedersi come si fa a comunicare – cioè «che cosa significa comunicare per me?» – è a sua volta l’abbondanza di cui abbiamo bisogno per interagire con le storie degli altri. Abbondanza di spazio quando decidiamo che a quelle storie vogliamo dare un luogo in cui esprimersi. Abbondanza di senso quando, nel tentativo di accomunare la nostra ad altre vicende, non abbiamo la pretesa che nessuno colmi i vuoti da cui casomai siamo afflitti.