Etica del contorno
Il contorno ritaglia una porzione di realtà. Nel disegnare un contorno non conta solo quello che c’è dentro ma ciò che resta fuori.

Nel documentario I colori dell’arte: nero (dalla serie Art Night, Rai 5) viene raccontato come il nero sia il colore – o il non-colore – che disegna il contorno. Il nero, infatti, è stato il primo segno che ha definito il perimetro delle figure fin dalla preistoria e ha consentito all’essere umano di passare dalla realtà alla rappresentazione. In questo modo nasce l’opera d’arte. Il nero, aggiunge il documentario, è il colore del cosmo, dell’universo primordiale, che contiene tutto l’universo in potenza. Noi qui diremo: tutto l’universo virtuale, dove questo termine – che discende da virtus e nel dizionario indica «virtù, facoltà, potenza» – richiama per area semantica una capacità esercitata con coraggio e inclinazione al bene: virtus, con il significato greco di areté, è «capacità di compiere una determinata opera o funzione, possibilità di raggiungere un dato scopo» assolvendo al proprio compito.
Come accennato, dal momento che il nero è il risultato dell’assorbimento (quasi) totale di tutte le frequenze dello spettro elettromagnetico della luce, senza che alcuna di esse venga riemessa, questo colore è stato identificato in età moderna come un non-colore – o come assenza di ogni colore – e non piuttosto come la totalità delle tinte possibili. Di nuovo potremmo ribadire che esso è il virtuale. Se per Coco Chanel, «il nero ha dentro tutto» e, come il bianco, è di «una bellezza assoluta», per Kandinskij bianco e nero sono due nulla: un nulla sorgivo e un nulla che chiude tutto. Trenta, un’opera del 1927 sopra riprodotta, sembra quasi raccontarlo.
Ma torniamo alla relazione tra nero e contorno: quella da cui nasce la rappresentazione. Ognuno di essi, in quanto virtuale, può essere considerato il sinonimo di un’assenza: il nero come non-colore, il contorno come quella linea di demarcazione delle figure che nella realtà non ha in sé consistenza. Ognuno di essi, dunque, senza essere reale, mette in luce la realtà ma anche ciò che la chiude in un certo confine. In altre parole, nero e contorno sono il simbolo di quello che non si vede e non si conosce, e parimenti sono la possibilità stessa del conoscere e del vedere.
Il segno nero del contorno ritaglia una porzione di realtà, la isola, e al tempo stesso lascia che essa gli sfugga. Nel disegnare un contorno, infatti, non conta solo quello che c’è dentro ma anche ciò che resta fuori, le infinite porzioni di reale che virtualmente possono prendere una forma stabile, cioè conoscibile, gestibile, manipolabile, per quanto provvisoria essa sia. Si potrebbe dire che il segno nero del contorno fa esistere le cose, se con questa espressione indichiamo il fatto che le tira fuori dall’indistinto – vale a dire dall’impersonale e dall’impronunciabile – le delimita, fornisce loro un senso e un significato in rapporto alla nostra esperienza. E nonostante ciò nasconde agli occhi tutto il resto, circoscrivendo un punto di vista privilegiato che è, però, irrimediabilmente individuale. Il contorno, in altre parole, è il segno del nostro sguardo sulle cose che può essere soltanto il nostro e che per essere visto richiede che qualcun altro ci racchiuda in un suo proprio contorno per raccontarci che cosa vede di noi. Al di fuori di questo «limite metafisico», c’è un grande punto cieco, un nero, per ritornare all’espressione di Chanel, assoluto.
Al contrario del relativo, cioè della prospettiva da cui guardiamo il mondo, «assoluto» qui riguarda non solo quella parte del reale che non vediamo, ma la totalità della nostra esperienza che non possiamo cogliere – e accogliere – all’interno dello sguardo personale: la parte inconscia della nostra psiche; l’eredità famigliare, biologica e culturale, dei nostri antenati che ci portiamo dentro; la profondità e gli echi primordiali della specie (il genoma Sapiens contiene tracce di Neanderthal); l’inconscio collettivo con i suoi archetipi che agiscono inconsapevolmente sulle nostre intenzioni. E scendendo ancora di più nelle fondamenta: le singole cellule che danno luogo alla nostra unità come viventi; l’infinita catena di processi chimico-fisici, del tutto involontari, che in ogni istante ci permettono di dire «Io»; gli abitanti non-umani del nostro corpo che, come racconta in una conferenza Gianvito Martino, non solo rappresentano circa la metà del patrimonio cellulare di un individuo, ma mostrano come l’umano sia un simbionte in totale compenetrazione con l’ambiente nel quale vive, un con-dividuo.
Ecco allora che la percezione di sé – l’identità che supponiamo di possedere – è un contorno arbitrario, provvisorio, insufficiente a descrivere l’immensità dell’esperienza vitale; e tuttavia sufficientemente utile nel quotidiano per rappresentarci e gestire le necessità.
D’altra parte, se torniamo a pensare il contorno come entità virtuale, abbiamo la possibilità di interpretare quest’ultimo, dentro il quale racchiudiamo una o l’altra realtà, come una scelta più o meno consapevole finalizzata a «raggiungere un dato scopo». Allora questo atto, con le sue conseguenze, si trasforma in un’etica, nella ricerca di un comportamento con il quale modellare il nostro stare al mondo. Tracciare un contorno, se fatto con sufficiente consapevolezza, è un esercizio spirituale che scopre parti impensate di noi; è una pratica di virtù che plasma il rapporto con noi stessi, con gli altri, con ciò che ci circonda.