Etica della prossimità

La realtà complessa e frammentata in cui viviamo richiede di costruire un’etica della prossimità, fatta di piccole azioni all’interno di gruppi locali o virtuali.

Antonio Spanedda, Collezione Lampadina, 1991

In un testo di filosofia leggo alcune considerazioni a proposito dell’ossigeno, come noto l’elemento vitale trasportato dall’emoglobina del sangue senza il quale la respirazione cellulare non sarebbe possibile, né, di conseguenza, sarebbe possibile la produzione di energia per ossidazione del glucosio. Il testo cita un passo di Bruno Latour che si esprime nei termini seguenti: «Questo veleno pericoloso [l’ossigeno] è la conseguenza inaspettata dell’azione di microorganismi che hanno dato ad altri attori, da cui discendiamo, l’opportunità di svilupparsi. In altre parole, l’ossigeno è una novità relativa, un grave esempio di inquinante che è stato colto da nuove forme di vita come un’occasione d’oro, dopo aver annichilito miliardi di forme di vita precedenti». L’autore che cita questo passo si spinge a dire che persino le scorie nucleari o le enormi distese di plastica nei mari potrebbero, un giorno, assumere il medesimo ruolo dell’ossigeno e costituire fonte di nutrimento per viventi che oggi non conosciamo.

Dal fondo della memoria ripesco allora una convinzione che mi ha accompagnato per gran parte della mia vita. Lo sguardo umano sulla natura – già il dualismo uomo/natura dovrebbe destare qualche sospetto – è, appunto uno sguardo umano, troppo umano. L’ecologia, che si fonda su quel dualismo di carattere antropomorfo, non è il frutto di un amore disinteressato per la natura, ma il calcolo della sopravvivenza di una specie che riflette le sue esigenze materiali (biodiversità, condizioni climatiche, disponibilità di risorse,…) nello specchio dei valori morali. Da una parte, il passo di Latour mostra la storia dell’evoluzione naturale da un orizzonte oltreumano, si potrebbe quasi dire assoluto e, in ogni caso, non relativo all’utilità di una singola specie. Dall’altra parte, ci ricorda di pensare qualsiasi sostanza come naturale, dal momento che, di nuovo, l’attribuzione di una specifica qualità – benefica/velenosa, chimica/naturale – è solo il frutto di una prospettiva così radicata nel nostro modo di essere da passare sotto traccia e risultare del tutto scontata.

Il testo a cui mi sto riferendo è un saggio di Federico Leoni che di recente ho già utilizzato. e che indirizza il ragionamento verso un pensiero della microetica. Vale a dire che le grandi questioni del nostro tempo non andrebbero trattate tanto con affermazioni di principio, cioè con quei blocchi paralizzanti – “l’ambiente”, “il bene comune”, ecc. – che restringono a zero la possibilità di intervento; ma piuttosto come un insieme di microcircuiti, di sistemi concatenati rispetto ai quali lo scarto di uno diventa il sostentamento dell’altro. «Qui un piccolo gesto fa la differenza. Qui un minuscolo aggiustamento ridisegna in profondità lo stato di salute della natura, dato che natura, qui, per definizione, è una piccola enclave di resti lasciati da una piccola cultura vivente o vissuta».

È un passaggio di prospettiva che, pur essendo l’esito di una convinta riflessione, non trovo facile da praticare, perché comporta la totale dismissione, o quanto meno la consapevolezza, dei pregiudizi che accompagnano il modo nel quale un problema viene formulato. Ciò che sono solito definire «l’incontro con la mia esperienza» mi sembra essere un punto di partenza abbastanza solido per compiere questo attraversamento. La frequentazione del metodo di socioanalisi narrativa è stata, in questo senso, un’efficace palestra che mi ha educato a tralasciare l’opinione per concentrami piuttosto su che cosa posso osservare dei fenomeni che, come si dice, si manifestano alla mia coscienza.

In questo orizzonte che, sommariamente, ho cercato di inquadrare, il mio tentativo sta nell’adottare un’etica della prossimità, cioè un’etica che, come nella frammentazione della Rete in chat, canali, micromondi, interessi iper-specializzati, agisce con piccole azioni, che sono quasi delle trans-azioni etiche, in specifici pubblici di riferimento. Viviamo, infatti, un tempo e una realtà complessi in cui la scelta più efficace possibile mi pare essere quella di – cito nuovamente il saggio – «non decidere ma regolare». Le nicchie biologiche dell’evoluzione naturale diventano le nicchie culturali della famiglia e della scuola, dei luoghi di lavoro e dell’intraprendimento, delle reti di relazioni distribuite a livello locale o virtuale. Gli scarti di una possono diventare, attraverso la pratica del dialogo e della rielaborazione concettuale, gli alimenti dell’altra. Quasi che ogni nicchia fosse un laboratorio permanente di ricerca di ciò che potremmo chiamare la saggezza di vivere.

Per quanto mi riguarda, il lavoro di formazione, quello di consulenza, e così pure quello di arte delle relazioni, che con l’artista Antonio Spanedda sto applicando al mondo delle imprese e ad altre occasioni sociali, hanno questo significato. L’opera che qui ci accompagna, realizzata dal suo alter-ego Lampadina, mi suggerisce una vitalità della relazione etica come forza di rigenerazione individuale e collettiva.

Ma, in fondo, si tratta di un’idea antica. Il motto di Epicuro «vivi appartato» è l’espressione di una filosofia di vita improntata alla sobrietà e all’amicizia. Vale a dire, alla regolazione dialogica e negoziale, piuttosto che alle decisioni prorompenti, di una nicchia di persone culturalmente accomunate. Le fonti riferiscono che, non per questo, Epicuro non avesse una vita sociale intensa, con numerosi contatti destinati a tutelare gli allievi e la sua scuola. Inoltre, l’attualità del suo atteggiamento sta nel fatto che anche Epicuro raccomanda una profonda conoscenza della fisica – noi diremmo della scienza –, poiché è dall’occhio limpido, imperturbato, educato a comprendere le leggi di evoluzione dell’universo e quelle delle vicende umane, che discende un’etica di felicità, giustizia, bellezza. Un’etica della prossimità quale metodo di indagine e di governo dell’esistenza.

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