Evoluzione… terrore e meraviglia

Ci sono almeno due modi di intendere l’evoluzione: inseguire quello che manca o godere di quello che arriva. Banalizzando: terrore o meraviglia.

Tutto ciò che scrivo non è che la storia di un malessere, di un disagio, di un’insoddisfazione e di una ricerca, di una inattingibile verità che possa placare la sensazione di disorientamento con la quale non smetto, giorno dopo giorno, di convivere. Ma come afferma qualche filosofo, la coscienza nasce dal trauma. Non avremmo bisogno di formarci una coscienza – e l’aspirazione alla consapevolezza che essa comporta – se non ci fossero nella storia umana, sia individuale che della specie, eventi tali da suscitare terrore e meraviglia.

Emanuele Severino ha ripreso, in un brevissimo ma efficace discorso, la tesi già avanzata da Aristotele, secondo il quale la filosofia nasce, appunto, dalla meraviglia. Senonché, come a molti è noto, la meraviglia di cui parla Aristotele è tutt’altro che un rassicurante e giocoso intrattenimento. Essa è piuttosto quel sentimento di terrore che sorge dalla paura del dolore, dell’infelicità e della morte; e che affida alla riflessione filosofica la costruzione di un senso senza il quale non potremmo neppure pensare tecniche e strumenti con cui metterci al riparo – sono parole di Severino – dalla «minaccia della vita».

Come suggeriscono le cronache dell’attualità, la «minaccia della vita» è il grande rimosso contemporaneo. Penso, come esempio rappresentativo ma non certo isolato, alla pandemia e alla modalità con la quale parole come «malattia», «sofferenza» o «morte» vengono espulse dall’ambito dell’esperienza e confinate dentro il concetto di un «nemico da combattere». Come se la specie umana fosse estranea alla struttura e al ciclo di vita della natura; come se gli eventi naturali, a partire da quelli che innestati sulla nostra radice animale si mostrano in tutta la loro crudezza, ci fossero completamente estranei. A questo riguardo, basterebbe consultare alcune delle tradizionali Fiabe italiane, raccolte da Italo Calvino, per vedere come fino a non molti anni fa l’educazione informale dei bambini prevedesse il confronto anche con le esperienze più sanguigne – come, appunto, la morte e il dolore; per quanto rese digeribili dalla leggerezza della creatività e della fantasia. Insomma, la «minaccia della vita» è il segreto scottante che deve essere eliminato a tutti i costi; è la condizione esistenziale – al di là di ogni possibile condizione materiale in grado di governarla – che getta scandalo e che ogni forma di pensiero positivo, oggi così frequente, si propone di arginare. Perché ciò che è positivo, nella cultura tecnica ed economica del nostro tempo, è anche produttivo; e ciò che è produttivo sgombra l’attenzione dall’angoscia del problema; evita i conti con la nuda realtà.

Per restituire significato e dignità alla paura del dolore, e per trasformarla in uno strumento utile alla vita, possiamo appellarci agli Arcani maggiori dei Tarocchi – che qui richiamo in qualità di rappresentazioni simboliche capaci, per loro natura, di veicolare quei complessi e contraddittori messaggi provenienti sia dalla realtà esterna, dalla sua imprevedibilità, sia da quella non meno indecifrabile della vita interiore. Nello specifico, La Ruota di Fortuna offre una lettura dei cambiamenti, soprattutto di quelli traumatici, in grado di cogliere il loro valore trasformativo su vari piani. Il primo di essi, frequentato anche dal luogo comune, è quello per il quale ogni cambiamento porta con sé il germe di un nuovo futuro; ma non è il più interessante da considerare.

Interessante è invece un secondo piano. Quello che, in un certo senso, riflette sul trauma che ha dato origine alla coscienza (di cui all’inizio abbiamo parlato) e sulle modalità per ricomporlo. A questo proposito, l’artista e tarologo Alejandro Jodorowsky scrive che La ruota di fortuna è composta da «un cerchio rosso e uno giallo che rappresentano la doppia natura animale e mentale dell’uomo». Il cuore è «l’elemento che può unire o immobilizzare le altre istanze, la vita spirituale e la vita animale. Sovente è un enigma emozionale, un nucleo affettivo irrisolto che blocca l’azione vitale». Il centro della ruota, che è anche il centro della carta, è il punto in cui questa unità si realizza. Potremmo dire, è il punto nel quale la paura del dolore, dell’infelicità e della morte si ricompone in una visione che non è più turbata dalle singole esperienze. D’altro canto, in tutte le tradizioni antiche è proprio questo centro simbolico, spirituale e insieme corporeo, il luogo privilegiato della trasformazione di sé.

Ma c’è un terzo piano di lettura che mi interessa evidenziare. Se infatti il cuore, cioè la consapevolezza delle proprie paure di cui dolore e morte sono le incarnazioni più essenziali, ha un peso determinante nel contribuire alla liberazione da queste ultime, ancora più penetrante è il radicale cambio di prospettiva che La Ruota di Fortuna ci propone. Scrive ancora Jodorowsky: «il messaggio della carta è chiaro: il principale fattore di cambiamento di vita è l’azione cosmica che si chiama anche divina provvidenza»; ma che in un linguaggio meno esoterico potremmo tradurre come la forza propulsiva che è racchiusa nella vita stessa; quello «slancio vitale» su cui Bergson aveva posto l’accento.

Quando perciò parlo di evoluzione non mi riferisco a una via di miglioramento, a una trasformazione causata da una qualche conseguenza che la nostra cultura è abituata a porre come scopo, come destinazione, come tappa di un ipotetico progresso. Mi riferisco invece al fatto che, in una visione ciclica del tempo – una visione che noi abbiamo perso ma che La Ruota di Fortuna ci aiuta a recuperare – ogni evento è lo svolgersi di un processo che incorpora e reinterpreta l’evento precedente. Se per un verso questo processo non può non accadere, facendo in modo che la ruota continui il suo corso e la vita si autosostenga, per un altro verso esso ci svincola dalla pretesa (nostra o altrui) di aderire a norme e ideali preconfezionati. Allora, la paura del dolore, dell’infelicità e della morte cessa di essere una mancanza da colmare; e diventa una meraviglia, scelta e praticata, da cui trarre grandi tesori.

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