Figli di un dio immortale

Dalla parola emerge tutta la nostra umanità: quella capacità di dare forma al mondo da cui deriva la consapevolezza di essere figli di un Dio immortale.

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In questi giorni ho avuto modo di riprendere il pensiero del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, per raccontarlo ai convenuti di un evento del settore informatico che, a dispetto delle mie perplessità iniziali – data la totale estraneità della proposta rispetto alle ben più specialistiche relazioni della giornata – si è mostrato un terreno fecondo di attenzione e incline ad accogliere la serie di riflessioni che ho cercato di condividere. Forse a dimostrazione del fatto che, pur in una rapidissima evoluzione dell’offerta tecnologica, e delle ricadute sempre più stringenti che questa impone sul comparto produttivo, abbiamo bisogno come persone di ricollocare la nostra dimensione esistenziale in nuovi quadri di senso; e di elaborare dentro di essa modalità di relazione che, se da un lato possono contribuire a migliorare i molti e stressanti aspetti della vita quotidiana, dall’altro gettano uno sguardo sulla necessità di trovare equilibri più fertili anche dentro gli ambienti lavorativi.

Detto questo, non avrei potuto iniziare diversamente il mio intervento se non con la proposizione che nel 1921 Wittgenstein ha impresso a fuoco nella storia della filosofia: «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». D’altra parte, ho cominciato a riflettere a fondo su questo punto già qualche anno fa, immaginando quello che potrei definire un’esperimento mentale: uscite dalla vostra abitazione, mettetevi in strada e, con una passeggiata, provate a percorrere la via che più vi è famigliare; ora immaginate, a ogni passo, che gli oggetti intorno a voi perdano progressivamente il loro nome, per scomparire in una bianca uniformità nella quale niente ha più attributi.

Se come me, avete risposto a questo esperimento con un sussulto di disorientamento e incredulità, penso vi sia chiaro quale rapporto noi abbiamo stretto con il linguaggio fin dalla nostra nascita; fin da quel momento in cui i genitori hanno battezzato la nostra identità con un nome che ci marchia, ci definisce, traccia i nostri confini emotivi ripercorrendo ogni singolo contorno del nostro corpo. Quel nome è dentro di noi; e, allo stesso modo, noi imprimiamo in ciò che ci circonda il segno di un medesimo destino; nel tentativo di stabilire con ogni elemento della realtà un rapporto, un legame, un controllo; un vero e proprio potere.

Ora, che succede se il vocabolario inizia a rompersi, a sgretolarsi, a impoverirsi? Come nel Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, la foto che ritrae il nostro mondo si appresterà a un lento e inesorabile processo di dissoluzione. È pur vero che l’Internet, come la comunicazione veloce dei social media, ci ha mostrato il ruolo di primo piano delle immagini nel catturare l’attenzione e trasmettere messaggi per i quali le parole sembrano ormai strumenti obsoleti. Eppure è nelle parole che noi facciamo fluire una corrente, altrimenti innominabile, di senso. È attraverso di esse che mettiamo in comunicazione il complesso mondo esteriore con l’inafferrabile interiorità delle nostre percezioni.

«In principio era il Verbo» scrive Giovanni nel Vangelo che porta il suo nome. Ed ecco così emergere tutta la nostra umanità: dare forma al mondo con l’abilità unica e insostituibile della parola, da cui deriva la consapevolezza che ci fa credere figli di un dio immortale.

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