Identità

Le nostre storie, più che una successione, sono una rete di eventi. L’identità è quel processo, tutt’altro che statico, con cui le teniamo insieme.

Ho letto Helgoland tutto d’un fiato, segno che la fisica è ancora un argomento che mi affascina e che costituisce un punto di riferimento nel mio percorso di riflessione. Carlo Rovelli, in questo libro, restituisce l’immagine di un mondo fatto di eventi e di connessioni, nel quale le cose non esistono in sé ma solo in relazione ad altre cose – qui trovate un’estrema sintesi (min. 13.00-40.00). E anche se Rovelli scoraggia quegli utilizzi della teoria dei quanti che intendono spiegare le vicende degli uomini (inclusi miracoli e spiritualità), nondimeno egli stesso non si tira indietro di fronte al fatto che pensare la realtà secondo l’interpretazione relazionale della meccanica quantistica implica ripensare l’ambiente umano in una forma del tutto diversa da quella tradizionalmente adottata.

Uno degli impatti maggiori che il racconto di Helgoland impone è la dissoluzione del concetto di Io. Un’idea peraltro non così recente, dal momento che nel sottotesto del libro ho continuamente ritrovato le parole di Nietzsche – mai citato in modo esplicito – e una visione dell’essere umano che non ubbidisce ad alcun valore o ideale precostituito; ma che, anzi, quei valori li produce a mano a mano che vive, si trasforma, si adatta alle situazioni e ne reinterpreta continuamente il senso.

Si potrebbe dire che, così come la materia, anche la vita è una trama sottile di relazioni; che io esisto e consisto solo in virtù di esse; che l’io sono è sempre e solo per qualcuno e che l’individualità è un’illusione cui, finalmente, rinunciare. Confesso che non mi è facile tradurre il concetto in azione poiché, per dirla ancora con Nietzsche, mi sento umano, troppo umano: legato alla protezione della mia storia individuale e agli interessi di bottega che la strutturano e la condizionano. E, tuttavia, sento potentemente che cosa significa essere soltanto «un intreccio di storie» – come mi piace dire da qualche anno a questa parte. Vivere, in una tale prospettiva, assume i connotati dell’innocenza e della fanciullezza, di quel continuo sperimentare e giocare con l’esistenza che nelle Tre metamorfosi, raccontate da Zarathustra, Nietzsche invita ad abbracciare al posto di convenzioni, status, immagini realizzate di se stessi che sono la natura del «dovere» contemporaneo.

Dunque, dicevamo, l’essere umano è una rete di relazioni. Non solo con gli altri umani, ma con le cose e gli eventi del mondo, come ribadisce molta filosofia dell’ultimo secolo. È sufficiente un piccolo esperimento mentale per accorgersene. Prendiamo un oggetto qualunque del nostro quotidiano – una penna, un computer, un paio di occhiali,… – e domandiamoci: chi l’ha pensato, chi l’ha prodotto, chi l’ha venduto o ce lo ha regalato, con che cosa o con chi ci mette in contatto, quali ricordi ha incorporato e quali attese contiene il rapporto che con questo oggetto abbiamo così intimamente stabilito? E allora, eccola venire alla luce la nostra rete di relazioni, di cui noi qui e ora siamo un nodo in continua evoluzione; siamo un tempo presente nel quale, però, sono altrettanto presenti le reti di significato che si estendono verso il passato e verso il futuro, e che rendono questi due momenti assolutamente reali, attuali, concreti, decisivi per il modo in cui definiamo il senso di noi stessi rispetto alle nostre esperienze e alle nostre azioni.

Cosa resta allora dell’individuo: un groviglio impalpabile, definibile solo attraverso quel tessuto vuoto e leggero costituito dalle parole. Nelle battute finali, è proprio alle parole e al potere immaginativo di queste ultime che il libro si rivolge. La struttura sottile della realtà – quella stessa struttura di cui anche noi siamo parte – ci costringe a pensare, con la potente poesia di Shakespeare che «siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni». Credo che il ciclo delle Ninfee, dipinte da Claude Monet, renda visibile questa immateriale consistenza del mondo. È sullo specchio di uno stagno che proiettiamo fiduciosi la nostra immagine, come ninfee che galleggiano su un presente nel quale ogni tempo, ogni evento di quella rete che abbiamo più volte richiamato, si riflette e si confonde. Basta un’increspatura, un alito di vento a spezzare l’equilibrio e a dirci che Io è l’immagine illusoria di un processo, di un continuo accadere. Ma è nel potere straordinario degli umani ricomporre quell’immagine, rileggerla con parole e colori sempre nuovi.

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