Il cibo degli dei

Vivere è convivere. Cogliere la rete di significati e di circostanze in cui siamo immersi. Riconoscere in ogni istante la loro presenza. E così, riconoscere chi siamo.

1024px-Nature_morte_aux_sept_pommes,_par_Paul_Cézanne

È successo di nuovo lo scorso pranzo di Natale. Atteso come un momento di pace gaudente, che finalmente ho imparato a fare mio, ho esaurito lo spirito della festa abbastanza in fretta, affaticato com’ero da un cibo il cui desiderio non si accordava più con le mie ben più modeste esigenze in fatto di piaceri della tavola. Come dire: l’esperienza e il suo significato – meglio: il pregiudizio su di esso – sono state sufficientemente discordanti da provocare un senso quasi di delusione. In direzione contraria vanno, invece, quelle occasioni di convivialità del tutto inaspettate, impreviste, impreparate e non programmabili; quasi che insieme ai commensali si possa veder nascere, in un istante intenso e sublime, un rito che di lì a poco verrà celebrato con gli onori dell’autenticità amicizia.

C’è un filo sottile nei convivi quando questi sono tali; cioè quando assecondano lo svolgersi delle cose senza alcuna pretesa. La condivisione degli alimenti, e degli istanti che li accompagnano, passa in molti casi per la narrazione delle provenienze di questo o di quel cibo, delle amicizie che lo hanno fatto conoscere, dei rimandi e dei ricordi che esso produce in chi si appresta a raccontarne una breve avventura. Le pietanze si trasformano rapidamente nelle parole suscitate da qualche tipo di memoria, piuttosto che restare ciò che effettivamente sono: elementi deperibili che presto scompariranno divorati dalla loro transitorietà.

Osservando con minuzia il susseguirsi degli accadimenti, si potrà notare che in queste occasioni di festa, in queste celebrazioni e liturgie dello stare insieme, quello che succede è un propagarsi infinito di significati. Una rete che, in maniera caotica, si va formando a mano a mano che il discorso procede con balzi, virate, cambi improvvisi di argomento, probabilmente indecifrabili nella loro illogica sequenza se osservati da un punto di vista esterno. Potremmo azzardare che lì, in quella situazione così disarticolata e inefficiente sul piano della razionalità, si svolga in realtà un processo altamente creativo; un fenomeno ingovernabile, e notoriamente irripetibile, che porta all’emergere di un senso al tempo stesso familiare e del tutto inedito.

Durante questo genere di esperienza, il piano materiale del cibo, quello semantico del discorso, quello creativo delle ironie e delle analogie, quello intimo e profondo delle relazioni, si combinano in un’unica trama nella quale un piano invade l’altro e ne riceve l’eco in una moltitudine di risonanze. Sembra quasi che le parole escano di bocca per magia, anticipando i pensieri di coloro che sono in ascolto. La nostra stessa identità, corporea e spirituale, pare perdersi nella rete di parole e di connessioni che alimentano, istante per istante, il divenire della situazione. Come se mescolassimo reciprocamente le anime, ammaliati in quel groviglio inestricabile di benessere.

In altri termini, «rete» si può leggere come un’espansione verso tutte le tracce e le memorie attraverso le quali la nostra esistenza è stata via via tessuta. Una complessa ragnatela entro la quale si raccordano tra loro le circostanze che ci hanno condotti a essere quelli che siamo diventati, e i significati che abbiamo attribuito al percorso disordinato con cui la nostra identità si è venuta progressivamente a formare. In questa intelaiatura, così fragile e leggera da disperdersi al minimo alito di vento, in quell’istante di godimento e di pura gioia conviviale, sono condensati il nostro passato presente e futuro; un futuro fatto dalle immaginazioni spesso inadeguate e illusorie – come rileva sapientemente Spinoza nella sua Etica – che già ci stiamo facendo sui giorni a venire.

Ma c’è un ultimo passo da compiere in questo itinerario che sembra appartenere più al sogno che alla realtà. Poiché se è vero che la rete dei significati testimonia la nostra connaturata (e inconsistente) dimensione relazionale, se è vero che essa si estende coinvolgendo l’intero arco delle nostre vite, è altrettanto vero che nel momento più intenso del convivio tutta questa mole di informazioni si risolve nella inesprimibile condizione di esserci; si fa tutt’uno con l’esperienza.

In un video che parla di filosofia ed esperienza della bellezza (min. 18.15), Costantino Esposito interpreta l’arte di Paul Cezanne in una luce non troppo dissimile dalla fenomenologia dell’evento conviviale che qui abbiamo analizzato. Per Cezanne, infatti, la funzione dell’arte è di interrogare le cose, anche le più banali e quotidiane (come le mele bacate delle sue nature morte), per riconoscere in esse la nostra stessa presenza; vale a dire, la rete di significati e di circostanze con i quali comprendiamo perché siamo (arrivati fino a) qui, perché lo siamo nel modo specifico che ci contraddistingue. In fondo, è un esercizio semplice che si può compiere in qualunque contesto, non necessariamente artistico o conviviale. È una pratica trasformativa che, dando spazio alla domanda – cioè alla rimozione di preconcetti e pregiudizi –, apre lo sguardo sull’intera trama della nostra vita, sulla sua genealogia ma, contemporaneamente, sulla sua indissolubile unità. L’esercizio che vi propongo, in sostanza, è un’esplorazione estetica (ma anche etica, di comportamento) nei confronti della bellezza e del piacere. Se mai ne avremo l’opportunità, sarà interessante filosofare insieme; restare nella metafora del convivio alla ricerca di un sapore che solo il cibo degli dei fa presagire.

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