Il senso dell’avventura
Il senso dell’avventura non è altro che l’avventura del senso. La ricerca di una missione di vita, l’incontro con l’esperienza e con il patrimonio bioculturale.

Non di rado ho la sensazione che il tempo della vita mi sfugga, come se in esso, nonostante le intenzioni e gli sforzi, si rivelasse un’impercettibile frattura; come se avessi bisogno di fermare quel tempo per capire come poterlo rendere appagante, significativo, degno insomma di essere trascorso.
Di recente ho letto più di una volta le parole che Giorgio Agamben scrive in un libretto all’apparenza modesto ma ricco di suggestioni: il suo titolo è L’avventura (nottetempo, Roma, 2015). Ogni uomo – dice l’autore riprendendo una tradizione antica – è preso nell’avventura che si manifesta attraverso i volti di Daimon (il Demone), Eros (l’Amore), Anache (la Necessità) ed Elpis (la Speranza). Ma c’è un ultimo volto, che coincide in qualche modo con l’avventura tout-court: è quello di Tyche — opportunità, sorte, caso o fortuna —, il momento in cui un essere umano sente di appartenere a una propria originale avventura. Quasi – aggiungo io – riconoscesse in essa la sua impronta digitale.
Tutto questo fa dell’avventura, non solo una un percorso o una storia, ma un evento: cioè un istante, fuori dallo spazio e dal tempo, nel quale ciascuno di noi tenta di mettersi in rapporto con il proprio Demone, con il proprio principio ispiratore, che lo guida ma anche che lo domina, e che potrebbe di lì a poco abbandonarlo lasciando come residuo quel sentimento di frattura con cui ho introdotto questo discorso. In altre parole l’avventura è l’evento in cui partecipiamo al senso della nostra vita, alla nostra più autentica missione.
Tuttavia, vale la pena precisare che, per quanto mi riguarda, ho sempre rigettato l’idea di una «missione» se con questa parola definiamo un compito o una finalità da realizzare collocata in futuro che sta fuori di me e che assume un ruolo consolatorio poiché portatore, un giorno, di un premio o di una salvezza. Ritengo, al contrario, che la missione di vita somigli più a una tendenza, allo svolgersi — ma anche al continuo rigenerarsi mentre incontra nuove esperienze — del nostro patrimonio bioculturale; vale a dire quel deposito di informazioni genetiche e di significati che, come mostra la biologia contemporanea mette in stretta relazione l’espressione del DNA con la costruzione degli ambienti sociali e dei concetti che li rappresentano (Carlo Sini, Carlo Alberto Redi, Lo specchio di Dioniso. Quando un corpo può dirsi umano?, Jaca Book, Milano, 2018). L’avventura, perciò, non è niente altro che il verificarsi – letteralmente, il farsi vero, cioè attuale e concreto – di questo patrimonio; è il suo venire alla luce sotto forma di consapevolezza; è osservare come si svolgono gli avvenimenti, tenendo presente che questo «come» ha la valenza di un «perché»: esso è infatti la direzione, il senso, il motivo lungo il quale evolve la partitura della mia esistenza.
Vorrei aggiungere, infine, un’ulteriore precisazione. Il fatto, cioè, che il senso è il prodotto della ripetuta integrazione dell’istante presente nel patrimonio stratificato delle esperienze. Per questo, come dice Agamben, mantenersi in contatto con il proprio Demone — vale a dire con il proprio senso o missione esistenziale — è la cosa più ardua (cap. 5, Elpis, p. 71). C’è sempre in agguato una frattura; c’è sempre il rischio che l’avventura si spezzi e che io non riesca più a trovare nelle parole che la raccontano il cuore della mia incessante trasformazione, della mia pulsante vitalità.
Il senso è perciò quel senza-tempo che nell’avventura dell’esistenza viene partorito ancora e ancora una volta. Lo posso immaginare come direzione da prendere per plasmare il futuro oppure come via che mi ha condotto fino al momento presente, purché: nel primo caso, non scambi il futuro con una meta ideale a cui sono destinato da sempre; nel secondo caso, non scambi il passato con un paradiso perduto dal quale non vorrei mai congedarmi.
Per quanto detto fino a qui, sono piuttosto le scelte fatte al presente a determinare il senso del mio esistere. Se è vero infatti che nulla, neppure la memoria del passato e l’immaginazione del futuro, vive all’infuori del presente, ecco che ogni scelta attuale si propaga nel passato e nel futuro modificandone il racconto e il significato. Ma ogni scelta non è altro che una selezione tra i vincoli che Tyche – l’opportunità, il caso, la sorte o la fortuna – ci presenta. Ogni scelta è, come si diceva poco fa, un’integrazione – nel senso matematico del termine – che ricalcola come un algoritmo il percorso della la mia missione di vita.
D’altra parte è lo stesso Agamben a ricordare che non bisogna confondere il destino con la necessità – si potrebbe anche dire: che non bisogna confondere il viaggio con la strada che serve a percorrerlo. L’una è un fatto insuperabile, ciò che non può essere diversamente da quello che è; l’altro è invece un farsi che all’occorrenza cambia destinazione.
In conclusione, Il senso dell’avventura di cui parla Agamben non è nient’altro che l’avventura del senso. Un costante ripensarsi e rimettersi in cammino, nel quale la consapevolezza del patrimonio immateriale che andiamo edificando è la bussola per non perdere l’incontro con noi stessi.