Immaginazione
Immaginare è un dialogo. È crearsi consapevolmente una rappresentazione del mondo che mette in discussione preconcetti e pregiudizi.

Nel corso della loro infanzia, ho osservato con molta cura il modo in cui i miei figli hanno fatto ricorso alla facoltà dell’immaginazione. Ciò che più di ogni altra cosa mi ha colpito in quegli anni è stato constatare – o quantomeno interpretare in tal senso – il fatto che realtà e immaginazione si confondessero in un unico piano dell’esperienza; che non ci fosse, tra queste due sfere, un’effettiva separazione come accade in età adulta. I giochi simbolici e il ricorso alla costruzione di ambienti, di oggetti o di personaggi fantastici mi apparivano, soprattutto intorno alla fascia che va dai 4 ai 7 anni, come elementi concreti, del tutto integrati nei rapporti con i quali i bambini concepiscono la loro visione del mondo.
Ricordo, a questo proposito, che durante un corso di formazione di Filosofia coi bambini, mi sono portato a casa una definizione di «bambino» che mi è rimasta nel cuore e che si è radicata nel mio modo di pensare. «Il bambino – sostiene il fondatore del gruppo, Carlo Maria Cirino – è colui che principalmente immagina» e con il quale, pertanto, non si può fare filosofia nel senso tradizionale del termine; cioè quand’essa venga intesa come quella disciplina teoretica, caratterizzata dall’uso logico e argomentativi della parola, e finalizzata alla creazione di un sistema razionale totalizzante, in grado di ricondurre ogni manifestazione del mondo a uno schema noto e prevedibile.
Ciò che probabilmente mi ha fatto maggiormente riflettere di quella definizione è il ruolo fondativo che l’immaginazione assume nell’infanzia; ma che, implicitamente, investe tutte le fasi della parabola esistenziale umana. Se, infatti, pensiamo all’infanzia come al momento in cui, più di ogni altro, gli esseri umani vivono nell’immediatezza dell’istante (poiché mi pare che il ruolo di genitori consista proprio nel guidare i bambini alla formazione di una coscienza del tempo – e dunque di priorità, responsabilità e scelte), ecco che la concezione dell’«istante», del «qui e ora», nel bambino si dilata e oltrepassa i confini che gli adulti delimitano attraverso categorie come «corpo», in termini di spazio, e come «presente» in termini di tempo.
Per dirla altrimenti, il «qui e ora» dei bambini condensa in sé ciò che accade, che è accaduto e che potrebbe accadere: esperienze reali ed esperienze fantastiche; mondo concreto e sfera interiore; in ultima analisi, una condizione che non recide ancora quei concetti di corpo e di anima con i quali, una volta diventati adulti, immaginiamo di essere costituiti, quasi fossero due mattoncini terribilmente problematici da tenere insieme.
Mi torna allora utile ricordare i termini con cui Pierre Hadot introduce quel discorso su Esercizi spirituali e filosofia antica (Einaudi, 2005) cui ho già accennato in passato. Secondo Hadot, nella filosofia antica, «la parola “pensiero” non indica in maniera abbastanza chiara il fatto che l’immaginazione e la sensibilità intervengano in questi esercizi [gli esercizi spirituali] in un modo molto importante». Il che significa che immaginare è una pratica rilevante sia per la riconciliazione di anima e corpo – secondo la missione che la filosofia antica attribuiva a se stessa – sia come strumento di trasformazione di sé. Scrive ancora Hadot: «Dobbiamo ben immaginare con quanta profondità e ampiezza l’individuo potesse essere sconvolto dal fatto di essere strappato alle sue abitudini, ai suoi pregiudizi sociali, dal cambiamento completo della sua maniera di vivere, dalla metamorfosi radicale della maniera di vedere il mondo, dalla nuova prospettiva cosmica e “fisica” che poteva sembrare fantastica e insensata al buonsenso quotidiano e grossolano». Che poteva – diremmo noi performanti uomini d’oggi – apparire come un inutile gioco buono solo per i bambini che ancora non sanno cos’è la concretezza della vita.
Se sono particolarmente sensibile a questo argomento è perché ho fatto – e faccio tuttora – un uso importante dell’immaginazione. Essa, infatti, mi ha soccorso in moltissime occasioni durante le quali, calandomi in una situazione sul piano pratico assolutamente inesistente, ne sono riemerso mutato nello spirito e nel pensiero; poiché il processo compiuto all’interno di quello spazio mi ha reso consapevole delle contraddizioni che la contingenza tende a mascherare, assicurando così uno svolgimento automatico delle faccende quotidiane.
A questo punto, posso identificare l’immaginazione in almeno due comportamenti differenti, anche se strettamente intrecciati. In primo luogo, essa è un esercizio che, muovendosi tra «il fuori di me» e «il dentro di me», riunifica l’esperienza in una percezione completa e benefica di me stesso; una percezione che ho definito altrove spirituale. In secondo luogo, mi piace pensare che l’immaginazione è un dialogo aperto con la propria rappresentazione del mondo: con i preconcetti e i pregiudizi che la fondano e, nello stesso tempo, limitano le mie opportunità di cogliere e di adattarmi a una realtà, mai come oggi, in continua oscillazione. Qui è l’Etica di Baruch Spinoza a illuminare la strada; a ricordarci, in fondo, che immaginare è, come nell’ambiguità di tutte le cose umane, tanto l’essenza stessa del nostro vivere, quanto il suo più grande inganno.«E poiché quelli che non capiscono la natura delle cose, ma le immaginano soltanto, non sono capaci di dire niente di esse e confondono l’immaginazione con l’intelletto, allora credono fermamente che nelle cose vi sia un ordine, ignari tanto della natura delle cose quanto della propria» (Etica, I, Appendice, UTET, 2013).