Imperscrutabili vie di crescita

Crescere è lasciarsi interrogare. Lasciar affiorare con chiarezza e qualità le domande su se stessi.

Uno degli eventi più significativi che mi ha coinvolto negli ultimi anni è stato mettere in questione il modello di padre che avevo cercato di crearmi. Per un verso, le contingenze hanno frantumato le mie convinzioni a riguardo; per un altro verso, questa frattura ha suscitato in me un sospiro di liberazione e di leggerezza, come se una nuvola nera evaporasse all’improvviso la cupezza dell’anima e la liberasse sotto un promettente pomeriggio di sole. Scardinare il ruolo troppo stretto e confuso che mi ero ritagliato, e che avrei capito non essere il mio, ha avuto al medesimo tempo l’effetto di mostrare la genealogia di quella definizione di padre che mi ero fatto, di riappacificarmi col passato e di aprire un varco verso una via, certo, inesplorata ma altrettanto gravida di opportunità.

Non è però la retorica eroica – e fin troppo banale – del fallimento e dell’opportunità che ne deriva, quella che qui voglio chiamare in causa. Al contrario, mi interessa raccontare come una mappa della paternità sostanzialmente vuota, priva di punti di riferimento perché adottata passivamente, abbia iniziato via via ad animarsi, a riempirsi di segni e di strade, a descrivere quell’esperienza con linee altimetriche che hanno incarnato domande prima di allora scarne o inesistenti.

In maniera non diversa, anche se nettamente meno radicale, ho conservato questo approccio esplorativo anche nell’attività di formazione. Insegnare è come attraversare una geografia che disvela ogni volta un’area vuota o sconosciuta. Nell’affermare le mie convinzioni, travestite da concetti ed esercizi che propongo ai partecipanti, mi accorgo regolarmente delle incongruità, delle incoerenze, degli spazi aperti tra la teoria delle parole e la pratica vissuta. Questi spazi sono i vuoti imprevisti, e imprevedibili, da cui emergono a sorpresa le domande su me stesso che ancora non conoscevo; sono le forzature cui costringe non tanto la contingenza, quanto una sottile incertezza che, venuta con timidezza alla luce, può essere elevata metodicamente alla dignità di dubbio.

Contrariamente a una cultura della crescita personale che, per quanto mi sembra di percepire, è indirizzata dall’entusiasmo dell’intraprendenza e del risultato – e che, a questo punto, ha bisogno della retorica fallimento-opportunità per rendersi credibile –, preferisco adottare un atteggiamento contemplativo. Dal mio punto di vista, crescere è percorrere una via spesso imperscrutabile; lasciarsi interrogare; lasciar affiorare con chiarezza e qualità le domande su se stessi; concretamente: ridefinire, con uno sguardo su di sé sempre più esteso, il confine e i rapporti tra parole azioni e mondo. Abitiamo infatti un contesto fluttuante, perché fluttuante è il continuo confronto tra la realtà e la parte oscura di noi che ribolle di sentimenti e di bisogni a volte sommersi per anni.

Come nella Buona ventura di Caravaggio, la lettura della mano – che oggi potremmo trasporre nella pretesa di ricevere e dare risposte certe e certificate – è una superstizione che ruba ciò che di più prezioso possiamo conservare. Vale a dire, la disponibilità a lasciar parlare un mondo enigmatico, con la sottigliezza dell’intuizione e con l’arte dell’interpretazione. Quasi una mappa che, distratti dalla chiacchiera facile e pronta a dir la sua, teniamo sul palmo senza saperlo.

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