Innocenti domande di senso

La domanda di senso non chiede il perché delle cose, ma piuttosto come funziona l’esperienza, come posso connettermi agli eventi per generare conseguenzeo soddisfacenti.

Hermann Hesse, Villaggio ticinese con chiesa, 1924

Uno dei ricordi più marcati che mi è rimasto dell’infanzia di Valentino è la sua incessante domanda di perché. Come una concatenazione infinita, innescata anche dal più piccolo particolare di un contesto, la richiesta di spiegazione mi appariva di una forza estenuante, quasi inesauribile. In uno spettacolo teatrale di molti anni fa, Lella Costa aveva dato conto di questa responsabilità genitoriale, ironizzando sulla sostanziale impreparazione degli adulti quando essi si trovino ad affrontare le esigenze di senso dei propri figli.

Si potrebbe fare in proposito questo esempio, portato in qualche intervento pubblico da Umberto Galimberti, nel quale un bambino domanda alla mamma:
– «Dio esiste?»
– «Certo che esiste!»
– «Ma Dio ha la mamma?», incalza il bambino.
– «No, è Dio!»
– «Ma se non ha la mamma, come fa fa a esistere?» conclude il bambino, fulminando così l’ignoranza teologica della malcapitata. Per inciso, Massimo Cacciari si è interessato a questa complicatissima e paradossale questione con il libro Generare Dio.

Ma torniamo a noi e alle «innocenti» domande di senso. Quando qualche anno fa mi sono avvicinato alla comunicazione nonviolenta attuata da Marshall Rosenberg, questa scelta mi ha indirizzato a comprendere che il senso è il bisogno più profondo – ma allo stesso tempo il più rilevante veicolo di trasformazione – che ha guidato la mia biografia. In fondo, è la causa determinante che muove la mia professione. Infatti, è proprio nelle incrinature di senso che ritrovo le motivazioni delle crisi con cui tuttora mi devo scontrare; ed è nell’interesse quotidiano all’argomento che, in qualche modo, elaboro i rimedi per superarle. «Dare senso» è stata perciò la locuzione che, tra le altre, ha dato maggiore consistenza alla mia storia, elevando di fatto questa attività al rango di missione esistenziale.

Ma se la questione del senso sembra alludere alle cause finali, alla sostanza che sta al fondo di tutte le cose, il corso più recente dei miei studi mi ha condotto a ripensare questo concetto secondo un diverso criterio. Proprio rivalutando la pressante domanda dei bambini sul «perché», mi pare di poter osservare che il «perché» non indica in loro l’aspirazione a conoscere una verità ultima – cioè un’essenza del fondamento, che è l’atrofizzazione di questa ginnastica giovanile del pensiero –, ma piuttosto una spiegazione pragmatica che, come le radici di un albero, tiene insieme la superficie degli eventi. In altre parole, analogamente all’atteggiamento della scienza, il «perché» dei bambini non chiede cosa c’è al di là dell’esperienza; ma, molto più prosaicamente, come l’esperienza funziona: come, cioè, posso connettermi agli eventi in modo da generare contesti funzionali alle mie esigenze.

Il senso, dunque, è il percorso che descrive l’esperienza stessa. È la modalità entro la quale determinare, in modo sempre nuovo e originale, un equilibrio dinamico e coerente con i cambiamenti che costituiscono la natura effettiva del reale. In ultima analisi, la domanda di senso è l’atto creativo – e, anzi, è l’atto creativo per eccellenza – che fa da ponte tra la mancanza di certezze e la possibilità di una connessione alternativa tra le cose. Per questo essa richiede un gesto di innocenza che mal si concilia con l’abitudine attualissima di fornire, per ogni situazione e con ogni mezzo, risposte plausibili ai dubbi legittimi che la vita comporta.

La domanda di senso, insomma, implica il recupero di un’ingenuità apparente che mi ricorda le opere figurative di Hermann Hesse. In questi acquerelli, infatti, ritrovo un umiltà di fondo, una rispettosa conversazione con il mondo che ha come risultato il medesimo coinvolgimento manifestato dai bambini quando pongono la domanda «perché?».

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