Intersezioni
Le intersezioni sono i confini che corrono tra i nostri saperi, le nostre convinzioni. Sono i sottili spazi di significato con i quali ridefinire la nostra esistenza.

Per quanto abbia interessi abbastanza settoriali, non sono mai stato uno specialista, né mi sono mai appassionato agli specialismi. Nonostante questo, è sufficiente osservare una qualsiasi forma vitale – la cellula di un organismo complesso, l’evoluzione delle specie, la progressiva organizzazione di un’impresa – per rendersi conto che il movimento verso la specializzazione si configura come direzione inevitabile di qualsiasi evoluzione e cambiamento. Se penso alla mia infanzia e adolescenza, solo alcune tra le tendenze che caratterizzavano la mia immaginazione si sono espresse e realizzate con una qualche compiutezza in età adulta. Il resto si è inabissato, scomparendo apparentemente dalla scena.
Per contro, gli studi sull’epigenetica, sul connettoma come nuovo modello cerebrale, sulla teoria della complessità e su molti altri fenomeni naturali, hanno reso evidente che i percorsi di evoluzione non sono affatto lineari, ma coordinati in reti di informazione che mostrano un elevato grado di condivisione con l’ambiente; al punto che, si potrebbe dire, non esistono cose, oggetti, elementi, ma soltanto eventi e processi, solo inafferrabili istanti che, se presi in se stessi, perdono di significato. La dimensione distribuita e impersonale della Rete porta in qualche modo a galla questa modalità dinamica del reale e mette in evidenza quanto i saperi verticali e circoscritti abbiano una scarsa efficacia nell’interpretare un mondo attraversato da repentine modificazioni.
Più che gli specialismi – che pure continuano ad avere una fondamentale ragione d’essere in molte discipline, una fra tutte la medicina –, appaiono più appetibili come strumenti di comprensione e di gestione della realtà, le intersezioni. Con questo termine, intersezione, non mi riferisco semplicemente a un approccio multidisciplinare delle conoscenze – un tentativo che, da genitore, ho visto sperimentare nella scuola in maniera assai discutibile e approssimativa. Piuttosto, l’intersezione è quello spazio di significato, a volte sottilissimo, che riproduce un sapere da un diverso punto di vista e che, operando in tal modo, trae le differenze necessarie a rendere quel sapere fertile, adattabile alle esperienze, radicato nel mondo della vita.
Ma c’è un altro senso che si può attribuire alla parola «intersezione». È il percorso di risalita dallo specialismo verso la sorgente, per così dire, primordiale da cui esso è andato progressivamente allontanandosi, rispetto alla quale si è raffreddato e cristallizzato. Certo, è uno specialismo che non avremmo mai potuto evitare; che ha dato luogo alla nostra identità; che riguarda non solo la settorialità dei mestieri, ma anche interessi, passioni, preferenze con i quali produciamo scelte; che, in definitiva, ha architettato i preconcetti e i pregiudizi senza i quali la nostra vita non avrebbe potuto prendere alcuna forma stabile.
Camminare sull’intersezione, in qualche modo, vuol dire ripercorrere a ritroso ciò che definiamo «la nostra evoluzione»; vuol dire rintracciare le tendenze e i significati inabissati che, se mi è consentito un paradosso, hanno fatto precipitare sulla superficie lacustre dell’esistenza l’identità razionale e responsabile di cui andiamo così fieri.
Potremmo anche dire che le intersezioni sono metaforicamente le radici che, dalle estremità dei rami più recenti e più evidenti del nostro percorso, conducono alle motivazioni invisibili dell’inconscio, dalla periferia del quotidiano e delle abitudini consolidate ci riportano alla scoperta di un’oscurità forse accantonata con troppa fretta.
In altri termini, se nella mappa chiara e distinta delle convinzioni, delle competenze, delle appartenenze che qualificano socialmente il nostro ruolo, non cogliamo più i contorni che ci hanno definiti, ma piuttosto le linee di confine che distinguono gli eventi, ecco riemergere in superficie il fiume carsico che continua a scorrere nelle viscere della nostra coscienza. È una presenza per molti versi inquietante, complessa e, dunque, imprevedibile nei suoi effetti e nei suoi interrogativi. Ma è anche la riscoperta di quelle tendenze creatrici che la maturità ci ha chiesto di accantonare in favore di etichette con cui conferirci reputazione e riconoscimento.
Per quanto mi riguarda, il compito primario di una pratica filosofica è imparare a osservare le intersezioni, a tracciare le loro linee di forza, a riconoscere in esse le sorgenti di significato che si muovono sotto le increspature della superficie identitaria. Da questo continuo esercizio di ciò che mi piace chiamare una «spiritualità laica» possiamo ritrovare il sacro che le contingenze hanno anestetizzato. Possiamo, insomma, ricollocarci al centro della vita per domandarci se le priorità che abbiamo stabilito sono davvero coerenti con le scelte, con gli effetti, con i frutti che oggi stiamo raccogliendo.