Io, un riepilogo di storie

L’Io è quell’invenzione moderna che protegge dall’angoscia della precarietà. Ma è anche una struttura fatta di vuoto che permettere di riconnettersi all’infinito, alla vita, a Dio.

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Penso a quegli amici che ho conosciuto negli anni della loro adolescenza. Oggi sono donne e uomini di mezza età che, probabilmente, da dentro hanno la mia stessa sensazione: il tempo, in fondo, sembra non essere passato; i cambiamenti, per quanto profondi e concreti, hanno lasciato viva una parte di noi che non smette di sentirsi vibrante e immortale.

La contraddizione da risolvere, senza mai peraltro arrivare a una definitiva conclusione, è quella tra ciò che passa e ciò che resta; tra una presunta identità, per definizione sempre uguale a se stessa, e un accidentato percorso che ne muta in maniera più o meno significativa alcuni caratteri essenziali, a volte fino al loro completo stravolgimento. «Sei sempre uguale!» o «Non sei più lo stesso!» sono gli estremi di questo intervallo di possibilità.

Remo Bodei, però, ci fa sapere che l’esigenza di un’identità personale nasce all’inizio dell’epoca moderna. Essa è la risposta alla perdita del paradigma esistenziale del Medioevo nel quale al centro della scena non c’è l’umano ma Dio; non c’è il singolo ma l’anima del mondo; non c’è l’Io ma il terreno comune e transpersonale che nel Medioevo è nominato Dio e che oggi potremmo definire inconscio collettivo. In un documentario storico sulle cattedrali gotiche si accenna, a tal proposito, che è solo a partire dalla modernità che gli artisti acquistano la notorietà e il culto della loro opera; mentre non ci è pervenuto alcun nome degli architetti che hanno progettato, con un’impressionante slancio immaginativo, chiese da erigere sul vuoto.

L’Io è, secondo Bodei, l’effetto di una condizione interiore precaria – ancora oggi mi pare molto ben presente – che lascia il singolo, per così dire, esposto alla forza degli elementi e dei cambiamenti. Del resto, gli studi sul Rinascimento indicano che gli esordi della modernità sono tutt’altro che un’esaltante fase di successo dell’entità Uomo; al contrario, essi nascondono nelle loro fondamenta le lacerazioni prodotte dai rivolgimenti di quel periodo, i cui esiti angosciosi sono stati imbrigliati dagli architetti e dagli artisti rinascimentali con un più rassicurante equilibrio delle forme (Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, 2019).

In definitiva, l’ansia e l’angoscia che colpiscono la nostra quotidianità sono le inflorescenze di una questione irrisolta che dura da almeno cinque secoli e che, per il momento così turbolento che stiamo attraversando, dà quasi l’impressione di essere arrivata al suo capolinea. In realtà, se si concepisce la storia non come serie di opposizioni e di stacchi ma come un fluido compenetrarsi di fasi in continua evoluzione, è disponibile fin dall’antichità, ed è pronta all’uso, una «filosofia perenne» contrapposta al canone maggiore del pensiero occidentale, quello della precarietà, della contingenza e della finitezza (Rocco Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, 2017).

L’Io, in questo caso, non è un’entità stabile e autonoma, ma è piuttosto una costruzione di esperienze che cerca, nella stabilità della definizione identitaria, uno strumento di azione utile a gestire gli eventi della vita. Si potrebbe dire che l’Io è il riepilogo delle nostre molte storie; è un’autobiografia scritta in presa diretta e continuamente in ritardo sugli accadimenti reali, ma assolutamente indispensabile dal punto di vista pragmatico per orientare scelte di sopravvivenza e progetti con i quali assecondare il nostro innato bisogno di espressione. Esercitare la spiritualità, la riconciliazione con l’esistenza di un dio (o di una natura), significa perciò, in questo senso, riorganizzare il concetto di «Io» trasformandolo nella leggerissima, eppure robusta struttura, che, come le cattedrali gotiche, è retta unicamente sul vuoto. Vale però la pena concludere che quel vuoto non è assenza. Anzi, è la natura stessa dello spirituale. È, cioè, l’inafferrabile sensazione che il passato non sia un elemento archiviato per sempre, che una parte di noi non smette di sentirsi vibrante e immortale.

Come ha mostrato Claude Monet, nella sua serie sulla Cattedrale di Rouen, questi edifici – proprio come l’architettura dell’Io, fatta di parole, concetti e (pre)giudizi –, di solido e stabile hanno solo la credenza. In realtà vibrano in un’impermanenza creativa; lasciano trasparire, nel contrappunto tra oscurità e luce, uno slancio vitale anonimo e universale che potremmo anche continuare a chiamare Dio. La consapevolezza che l’Io sia un attrezzo concettuale, da impiegare in modo pragmatico per i compiti operativi dell’esistenza, ha la sua contro partita nella riconnessione con l’infinito: cioè con quella dimensione, al tempo stesso, piena e straniante che si qualifica come via di saggezza e di felicità. E, in effetti, «Non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali» (Epicuro, Lettera sulla felicità, 135).

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