La cura delle parole

Le parole sono il racconto del mio rapporto con l’esperienza. La cura nella scelta delle parole è una ricerca, una sintesi, un alleggerimento che diventa cura di sé.

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Alcuni giorni fa mi sono imbattuto in una citazione di Alda Merini che ha suscitato in me un senso di vicinanza, quasi di armonia: «Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire».

Ho provato questo sentimento perché di Alda Merini ho amato la scrittura visionaria, la crudezza di certe constatazioni riguardanti le esperienze amorose o i soggiorni in manicomio, e le metafore che trapassano la realtà materiale per mostrare aspetti impercettibili, spesso inaccessibili ai canoni tradizionali del discorso. Ma anche perché la sua affermazione mette in ridicolo l’abbondanza della comunicazione contemporanea e tutte quelle etichette che, soprattutto in ambito professionale, descrivono mestieri forse non così altisonanti rispetto a quanto esse vorrebbero far credere.

Non che io non mi debba, in qualche misura, arrendere alla necessità di titoli e definizioni, con i quali collocare e far comprendere la natura del mio lavoro. Ma nonostante questa battaglia persa in partenza – dal momento che sarebbe impossibile intendersi e persino sopravvivere senza congelare la vita in uno schema di riferimento – mi piace considerare le parole l’esito di una storia; il racconto del rapporto che ho stabilito con l’esperienza lungo il corso degli anni; qualcosa di vivo e fremente con il quale interrogare il mio percorso. In fondo, l’esperienza non è altro che la parola stessa: il suono sfuggente – perché una volta pronunciato non esiste più – con cui il significato delle parole cerca di cristallizzare il tempo che passa.

Se le cose stanno così, allora la cura delle parole non è una semplice selezione; un’attenzione, magari anche maniacale, sulla scelta del lessico che meglio si adatta al discorso e che non ferisce, non oltraggia, non abusa della fiducia e del tempo altrui. È piuttosto una ricerca, un ascolto per percepire i rumori che le sillabe contengono e ricostruire, con la potenza delle analogie e delle metafore, la rete di connessioni a causa delle quali oggi quella certa parole ha per me un determinato significato. Un significato non certo innocuo: perché è su di esso che modello scelte e azioni; è su di esso che costruisco chi sono e dove intendo andare.

Potremmo quasi dire che la cura delle parole è un’operazione storica; è un atto di consapevolezza che mi fa voltare indietro a rivedere in un lampo quello che sono diventato. E, tuttavia, questa operazione riesce tanto meglio quanto più riesco a far emergere dalla matassa confusa dell’esistenza i nodi che descrivono i passaggi sostanziali della mia avventura.

In una lezione sulla felicità e sui modelli che, in questo senso, provengono dall’Oriente, il filosofo Giangiorgio Pasqualotto si sofferma (min. 47.00) sulla natura delle cose secondo il pensiero buddhista. Sul fatto che esse, non solo sono impermalenti, ma anche che non esistono di per sé, in quanto tali. L’esempio più lampante è quello del nodo di un tappeto, la cui presenza è data soltanto dall’intreccio dei fili che lo compongono; prova ne è – ribadisce Pasqualotto – che se i fili vengono sciolti il nodo non c’è più.

Allo stesso modo, ritengo che possano essere considerate le parole: nodi apparenti al di sotto dei quali non c’è nulla di più che la nostra durata, per dirla con Bergson; la nostra precaria, eppure consistente, impermanenza. Ecco allora che le «parole da non dire», indicate da Alda Merini, sono un progressivo distillato di tutto ciò che non è essenziale. Una traccia così leggera da richiedere soltanto pochi semplicissimi termini per essere espressa. Nell’esercizio di questa leggerezza mi immagino capace di rendere sempre più evanescenti i pesi che, credo come tutti, mi porto appresso. Prendersi cura delle parole, perciò, equivale a prendersi cura di sé. Eliminare il superfluo. Lasciare che la vita ci attraversi senza l’assillo di perdere un valore che non è nelle etichette o nelle cose, ma nel loro continuo trasformarsi.

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