La cura di imparare a vivere
La felicità, più che un sentimento, è un’azione, un comportamento, un’abitudine: in una parole, è un’etica. È la cura di imparare a vivere.

In un incontro pubblico, che avevo dedicato alla Lettera sulla felicità di Epicuro, uno dei presenti affermava che questo sentimento è un traguardo realisticamente irraggiungibile e che al limite se ne può percepire la presenza solo in alcuni istanti particolarmente propizi. Al suo posto sarebbe invece opportuno il più modesto tentativo di costruirsi una vita serena, libera da preoccupazioni e sofferenze ma, al tempo stesso, rinunciataria verso un obiettivo tanto ambizioso e, per così dire, sovraumano come quello di essere felici.
È vero che lo stesso Epicuro indica nella felicità un piacere che «aiuta a non soffrire con il corpo e ad essere sereni con la mente»; e tuttavia sostiene che il piacere, principio e fine della vita felice, consiste nel «lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che provocano un rovellìo profondo». Perciò la condizione di intimo godimento – per esempio quello che si prova nello svolgimento di un’attività da cui veniamo completamente assorbiti – consiste nella qualità di presenza che testimonia le ragioni di questo sentimento.
In altre parole, la felicità si realizza, più che nel semplice soddisfacimento dei desideri o nell’allontanamento dei dolori fisici e spirituali, nel diventare testimoni di questo processo: contemporaneamente attori, spettatori e fruitori del percorso che conduce alla realizzazione di un desiderio o al suo abbandono motivato, cioè interamente compreso e agito nel limite delle scelte che dipendono da chi lo vive. Questo fa dire a Epicuro, a proposito del piacere, che «il principio e bene supremo nella condotta è la saggezza […]. Essa ci insegna a comprendere che non c’è vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta che sia priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili».
Ma, nel pensiero antico, essere virtuosi implica l’assolvere tanto un’azione quanto una disposizione. L’eroe omerico, che è l’archetipo della virtù, compie sempre l’unico gesto che non può fare a meno di compiere. Riprendendo quanto sopra: è attore, dal momento che il suo intervento è decisivo nella situazione; è spettatore, poiché non fa altro che assecondare la necessità del suo destino; e infine è fruitore in quanto realizza la sua natura, o come si può alternativamente dire, mette in atto la sua potenza.
La persona felice, esattamente come l’eroe, è testimone; per dirla con un ossimoro, è “osservatore attivo” del contesto in cui si trova – e d’altra parte non è forse spesso definito eroe chi versa in cattive condizioni di vita o di salute senza per questo perdere la tranquillità dell’anima? Secondo il filosofo indiano Krishnamurti, l’osservazione è la più alta forma di intelligenza umana. Il che ci riconduce di nuovo alle parole di Epicuro: non esiste vita felice che non sia saggia, intelligente, né vita intelligente che sia priva di felicità.
Uno studio dell’Università di Harvard sulla felicità ha rilevato, in un arco temporale di 75 anni, che la felicità è principalmente un esito della qualità delle relazioni; le quali – dice il responsabile della ricerca – «sono caotiche e complicate e il duro lavoro di prendersi cura della famiglia e degli amici, non è né sexy, né popolare. Dura tutta la vita, non finisce mai». Se allora possiamo pure continuare a intendere la felicità come il sentimento fugace e passeggero che qualche volta si manifesta nella nostra esistenza, nondimeno è possibile affermare che essere felici è una un’attività, una scelta di comportamento, la costruzione di un’abitudine e di un atteggiamento: vale a dire un’etica.
Niente a che vedere con una serena rassegnazione che ubbidisce a una logica dell’umano sottomessa alla contingenza e all’idea che l’umano sia una strutturale condizione di mancanza, come peraltro è sottinteso dalla gran parte della nostra cultura. Contrariamente alle lezioni che designano Epicuro ora come mero edonista ora come un uomo che ha rinunciato ad esporsi alla vita, si potrebbe invece dire che il suo insegnamento è portatore di un pensiero semplice ma per nulla scontato: la felicità è apprendimento; è essere consapevoli e, ancora di più, è il diventare consapevoli. È, in ultima analisi, la cura di imparare a vivere, l’esercizio costante di andare incontro alla propria esperienza.