La madre di tutte le cose
Conflitto è la parola maschile per una realtà femminile più complessa e sfuggente che, paradossalmente, non lo cancella ma lo trasforma e lo amplia.

Nel mio lungo, tortuoso e, a volte, affannato percorso di ricerca, mi sono trovato ad affrontare una questione fondamentale che riguarda il linguaggio e il nostro stesso modo di comunicare.
Padre di tutte le cose è la guerra e di tutte è re: gli uni li rese dei, gli altri uomini, gli uni li fece schiavi, gli altri liberi.
In questo frammento di Eraclito c’è la sintesi della mia domanda. Davvero al fondo di ogni discorso, alla radice di ogni dialettica, dobbiamo pensare che si collochi il conflitto? Davvero il conflitto è una condizione strutturale del nostro essere e della natura? Oppure è un costume culturale, un modo di pensare, sì radicato e diffuso, ma al tempo stesso un’interpretazione della realtà che possiamo modificare?
Le mie certezze hanno iniziato a vacillare quando ho incontrato pratiche di dialogo co-creativo e di comunicazione nonviolenta. Ma il vero momento di crisi, letteralmente di scelta per una nuova prospettiva, l’ho attraversato con la riflessione sul femminile nel progetto artistico FRAU(di cui sono stato marginale osservatore) e con le sollecitazioni offerte dalla piattaforma TED, sia sul tema TEDWomen 2018che in un profondo talk di Riccarda Zezza.
Se spostassimo, infatti, la prospettiva dall’universo maschile a quello femminile, ci accorgeremmo che se Pòlemos, il conflitto, il dio della guerra, è padre di tutte le cose, allora madre del conflitto è forse una molteplicità di forme, di significati, di interpretazioni che, attraverso un uso superficiale del linguaggio, portano l’essere umano su un terreno di incomprensione e di scontro. Le antiche culture radicate alla terra e alla fertilità, rimandano a una dimensione del femminile che ci permette di trasformare il conflitto in almeno tre modalità diverse del molteplice. La prima: la maternità, che è molteplicità per eccellenza, luogo fisico e simbolico nel quale l’uno moltiplica, attraverso se stesso, la vita. La seconda: l’inclusione, che è pluralità di culture ma, ancor prima, di storie di vita irriducibili le une alle altre. La terza: l’amore, che è accoglienza delle individualità e spazio per una rielaborazione creativa di prospettive differenti.
Ma, in fondo, anche Eraclito lascia socchiusa una porta e coglie nella guerra fra le cose una sottile linea che conduce al paradosso. La guerra, «gli uni li rese dei, gli altri uomini, gli uni li fece schiavi, gli altri liberi». Come a dire che nelle pieghe dischiuse dal conflitto è custodita una verità accessibile non agli uomini ma chi va oltre il loro pensiero; non a chi è schiavo di esso, ma a coloro che lo sanno liberamente interpretare.
Del resto Eraclito è filosofo delle cose in continuo divenire. Se per ogni discussione, usassimo una prospettiva anomala – guardando le parole non come la fine di un discorso, ma come l’inizio di una possibilità; non come la fotografia statica di un contesto, ma come il fluire verbale di quello stesso contesto – allora riusciremmo, in qualche modo, a transitare nel femminile. E da esso nella straordinaria generatività che il talk di Riccarda Zezza, poco sopra citato, individua quale pacifica forza per cambiare il mondo.