La retorica dei talenti

Piuttosto che un potenziale inespresso, i talenti sono lo svolgersi di un processo. Sono il nome retrospettivo che diamo al percorso fatto e non un’identità che già credevamo di avere.

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Ogni volta che leggo considerazioni, articoli, o frasi motivazionali che esaltano la capacità di tirare fuori i talenti – da se stessi o da qualcuno che sembra averne bisogno – mi scorre lungo il corpo una piccola ma persistente scossa di insofferenza, a volte di irritazione. Trovo che questa parola, talento, rappresenti una rassicurante via di fuga: come se per realizzare a pieno un percorso personale o professionale fosse sufficiente commutare in realtà il potenziale che io presuppongo da qualche parte di possedere; un potenziale che devo semplicemente rivelare per metterlo al servizio del mio successo, cioè, per raggiungere un completo (e narcisistico) godimento della mia individualità.

La realizzazione dei talenti è, in questo senso, una via di salvezza che conduce da uno stato di minorità – quello di chi il talento non l’ha ancora espresso – a uno di redenzione, con il quale liberarsi in un sol colpo di due atteggiamenti che la nostra epoca disprezza: il tempo improduttivo necessario alla consapevolezza, che il mercato, in cui la retorica del talento si è sviluppata, non può tollerare; e una più profonda, ma problematica, esplorazione di sé che porterebbe in superficie questioni sospese, irrisolte, contraddittorie, oscure. Orientare lo sguardo verso la realizzazione delle potenzialità è, in fondo, una forma di distrazione per non guardare che cosa è rimasto nei sotterranei della propria storia. È una chiave di semplificazione che apre l’orizzonte di un presunto riconoscimento personale, ma che, allo stesso tempo, chiude l’altro lato della porta: quello che si rivolge alla complessità della vita interiore e a una vasta zona d’ombra che, secondo l’interpretazione archetipica dell’essere umano elaborata da Carl Gustav Jung, continua a controllare scelte e azioni credute libere (Riccardo Dal Ferro, Monografia su Carl Gustav Jung, Rick DuFer, YouTube, 2021).

Ora, scopo di questo ragionamento non è negare lo sviluppo dei talenti; ma, piuttosto, revisionare ciò che la parola rappresenta. L’etimologia ci ricorda che «talento» è in origine il risultato di un’operazione che ha finalità pratiche: esso indica l’azione di pesare una quantità di monete reali per determinare il loro valore. Da qui, per astrazione, il talento diventa esso stesso una moneta; e, una volta scomparsa dalla circolazione, di quest’ultima resta solo il nome, a indicare in senso metaforico «le doti migliori dell’intelletto» (Dizionario etimologico etimo.it). Insomma, una tesi simile a quella evocata da Umberto Eco nella Postille a “Il nome della rosa”. Lì era il concetto di «rosa» a rimanere come ultimo residuo di un’esperienza fatta unicamente di sensazioni (profumo, tatto, colore). Qui è il talento a costituire il resoconto di un processo; a dare l’illusione di una potenzialità che crediamo di avere e che, invece, prende forma solo nel momento in cui, guardandoci indietro, la ritagliamo come significato dall’itinerario compiuto. In definitiva, conferiamo effettivamente sostanza a un talento solo in maniera retrospettiva; altrimenti esso è un’etichetta che ci consente preventivamente di nominare e, quindi, manipolare a fini pratici un’ipotetica serie di azioni che richiede molto più impegno di quanto possa apparire.

Anche la mitologia può, in qualche modo, confortare questa interpretazione. Secondo il poeta latino Ovidio, la ninfa Eco, innamorata di Narciso e da questi rifiutata, si consuma di dolore fino a che di lei non rimane che la voce. Per contro, la dea Nemesi punisce Narciso per aver condannato Eco all’infelicità: lo fa specchiare in uno stagno, certa che Narciso, rapito dalla propria immagine, vi cadrà dentro per morire (Anna Ferrari, Dizionario di Mitologia, UTET, Torino, 1999). Il pittore John William Waterhouse rappresenta in un dipinto la leggenda. Trasponendo il mito nel nostro ragionamento, potremmo dire che credere che i talenti siano reali, invece che mere previsioni, è un equivoco da evitare: da una parte, perché finiremmo, come Narciso, per cadere vittime della nostra vanità, nella convinzione che il «talento» – e non una più complessa opera di consapevolezza – sia sufficiente per far fronte alle sfide che incontriamo; dall’altra parte, perché finiremmo per dimenticare che, come Eco, questa parola è solo un suono della voce e tale rimane quando è privo di una storia che ne incarni l’evoluzione.

Alla luce delle considerazioni fatte, piuttosto che un potenziale inespresso, i talenti sono lo svolgersi di un processo che non ha mai una «vera» conclusione; che non conduce, cioè, a un’identità «più vera», rispetto alla quale le esperienze pregresse diventano errori, deviazioni o mancanze da colmare. I talenti non sono un’immagine ideale di noi stessi da cui rischiamo di restare distanti, insoddisfatti, frustrati perché mancanti sempre di qualcosa che ci realizzi. Al contrario, lasciandoci ispirare dall’etimologia, possiamo leggere questo concetto come la costante ricerca di una misura, di un equilibrio, con cui dare peso – il giusto peso – alle risorse che sotto forma di esperienze si sono stratificate dentro di noi e che ci costituiscono integralmente. In una tale prospettiva, allora, c’è spazio per accogliere anche quell’ampia zona d’ombra di cui parlava Jung. Talento è così avere il coraggio di confrontarsi con l’oscurità che ci appartiene e vedere dove può condurci.

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