La silenziosa voce del cambiamento
Il cambiamento è lo sfondo che permette di vedere che cosa di noi resta immutato. È l’evento grazie al quale possiamo dire chi siamo.

Sfoglio l’archivio dei miei ricordi. Le montature degli occhiali che ho indossato mi raccontano, ciascuna a suo modo, un periodo felice o difficile della mia vita. La loro forma e lo spessore riassumono cosa vedevo di me: come mi pensavo e mi rappresentavo agli occhi del mondo.
Tutto cambia, «tutto si trasforma». È stato uno dei motti con cui ho declinato la mia ragion d’essere e ho provato a dare senso a un itinerario che solo molti anni più tardi è sembrato uscire dalle nebbie. In molte occasioni il cambiamento, più che una necessità, è stata una strategia per fuggire dai conti che non volevo fare con me stesso. Una strategia inutile, dal momento che quasi sempre mi sono ritrovato al punto di partenza, con il problema, casomai, di avere lasciato che il tempo travolgesse come una piena qualsiasi possibilità di scelta.
Soltanto di recente il cambiamento mi è apparso in una forma inedita. Anziché focalizzare lo sguardo su quello che muta, che fugge, che vorresti ma non puoi trattenere, o che non vedi l’ora che venga spazzato via, ho iniziato a setacciare con la mia rete di concetti le cose che invece sembrano resistere a questa incessante operazione di erosione e di levigatura del tempo. Cambiando di poco la prospettiva – un po’ come quando con la macchina fotografica si imposta la profondità di campo – gli eventi in primo piano si sono trasformati nello sfondo da cui far emergere la continuità di ciò che sono. In fondo, è proprio questo elemento di contrasto, di conflitto, di contraddizione, che il cambiamento implica, a rivelare i dettagli che sono sempre stati lì e che proprio per la loro staticità sono rimasti invisibili agli occhi.
Da questo punto di vista, ascoltare la voce silenziosa, sommessa, che l’attualità dei mutamenti copre con il suo rumore, è il controcanto, e insieme l’accordo, a quell’attenzione al presente che gli esercizi spirituali di molte tradizioni invitano ad assumere. È noto infatti che per queste tradizioni il presente e l’eternità si toccano; che l’essenziale e l’immutabile stanno racchiusi nell’istante, per definizione, inafferrabile a causa della sua immateriale inconsistenza. Pierre Hadot (Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, 2005, p. 60) menziona Plotino, che nelle Enneadi suggerisce di scolpire la propria statua rimuovendo dal blocco delle passioni nel quale siamo imprigionati la nostra più profonda voce interiore: «[…] la statua preesiste nel blocco di marmo, e basta togliere il superfluo per farla apparire. Questa rappresentazione è comune a tutte le scuole filosofiche: l’uomo è infelice perché è schiavo delle passioni, ossia perché desidera cose che gli possono sfuggire, poiché gli sono esterne, estranee, superflue. La felicità consiste dunque nell’indipendenza, nella libertà nell’autonomia, vale a dire nel ritorno all’essenziale, a ciò che è veramente noi stessi e a ciò che dipende da noi». Ed è in questo senso che lo sfondo del cambiamento, privato dei turbamenti che esso produce, porta alla luce e all’orecchio la nostra vicenda esistenziale. Potremmo dire, anzi, che ne rivela la spina dorsale, le radici fisiche e culturali su cui la nostra identità si è andata strutturando.
I ritratti di Amedeo Modigliani, eseguiti nei primi anni del Novecento, paiono raffigurare esteticamente lo stesso processo. Essi colgono, per l’appunto, i segni essenziali dei loro protagonisti trasformando questi ultimi in veri e propri personaggi di una storia senza tempo. Gli occhi vuoti, il carattere iconico, il tono quasi imperturbabile dei loro volti. Se lo ascoltiamo fino in fondo, coincide con la silenziosa voce che qui stiamo cercando di origliare; e che, come una litania, ci mette in contatto con l’eco sacra dell’esistenza. Fra questi ritratti, Léopold Zbowroski ha per me qualcosa di famigliare. Riconosco nella sua immagine una sillaba umana che anch’io devo avere pronunciato in qualche momento. Non ha gli occhiali. Ma la sua voce, il suo busto reclinato, mi comunicano un segreto di cui avverto impercettibile la comunanza. Sullo sfondo, naturalmente, di un cambiamento che in questo istante si è quasi dileguato.