La strada per Mileto
Oggi sembra che la scienza abbia traslocato la sua identità nella tecnologia, perdendo quel carattere immaginativo che forse dovremmo riscoprire.

Se per un attimo potessimo riavvolgere fino in fondo la storia della scienza, ci ritroveremmo a ragionare sulla natura insieme a quel gruppo di pensatori che fra il V e il IV secolo a.C. hanno reso celebre il nome della Scuola di Mileto. Certo a noi, abitanti della modernità, il filosofare di quegli antichi uomini – i primi della tradizione occidentale secondo Aristotele – può apparire per certi versi semplice e grossolano, forse ingenuo, persino poetico ed enigmatico; degno di una benevola ma superiore considerazione, se compariamo i risultati di quell’epoca lontana al poderoso impianto della ricerca scientifica contemporanea corroborato da ingenti moli di dati e previsioni di ineguagliabile precisione statistica.
In un articolo apparso esattamente due anni fa sulla rivista specializzata Le Scienze, il fisico Victor Stenger traccia un rapporto fra scienza e filosofia, rilevando come quest’ultima, negli anni recenti, abbia incontrato una serie di critici che l’hanno messa in evidente difficoltà. I più severi ne hanno addirittura decretato la morte, fondando la loro opinione sul fatto che la filosofia sia così tanto carente di osservazioni sperimentali da non poter tenere testa a discipline nelle quali il dato è l’unica spendibile certezza.
È pur vero che la verifica sperimentale è nella ricerca scientifica una pratica che Stenger fa risalire alla stessa Scuola di Mileto. Tuttavia mi sembra di poter rilevare una discontinuità fra la scienza storicamente intesa e la sua attuale interpretazione: il fatto cioè che, mentre in passato la scienza è stata anche un veicolo per le applicazioni tecniche (con particolare riferimento a quelle militari), oggi sembra quasi che essa abbia traslocato interamente la sua identità nella tecnologia. Cioè in un processo di oggettivazione che ha come scopo essenziale la completa estrazione di valore da un capitale intellettuale in vista di un’applicazione tecnica, operativa, oggettivamente remunerabile.
Perché interessarsi a questi aspetti? – verrebbe da dire. Perché se davvero stiamo assistendo a una mutazione così profonda della scienza, rischiamo di perdere di vista la sua più importante caratteristica: quella cioè di procedere nella ricerca di una spiegazione della realtà con un fare immaginativo che trova nei dati una conferma, anziché una premessa orientata a costruire soluzioni tecniche precise e affidabili. Forse, nel mondo della scienza, questo è un dibattito che non teme il tempo. Ma nella scuola, nel lavoro, nell’economia, la veste di una scienza tecnicistica, che ama la matematica dei dati come una rassicurante risposta, sta diffondendo un pesante torpore: un senso di panacea per tutte le variabilità che la vita dissemina sul nostro cammino.
Non è dunque il caso di riaprire la strada per Mileto? Non dovremmo riavvolgere davvero la storia della scienza per rivedere quegli antichi uomini incerti e coraggiosi nel loro operare? In fondo i filosofi, come ha scritto Gilles Deleuze, non sono gli amanti della conoscenza quanto piuttosto i suoi più folli antagonisti: pronti a sfidare qualsiasi cosa appaia ovvia e rassicurante. Ancor più se numericamente verificata.