La sublime eccedenza del mondo

Potremmo imparare dagli antichi: solo l’arte e la poesia possono leggere quel senso imprendibile che va oltre il linguaggio e che Kant chiama sublime.

Vincent Van Gogh, La notte stellata, 1889

Le aziende lo sanno bene, sono fondate sulla previsione e sulla replicabilità di un risultato. Ma, in fondo, non fanno che riproporre quel bisogno ben più profondo di prevedibilità che contraddistingue il nostro animo incerto di esseri umani. Gettati nel mondo – o ancora meglio, nella possibilità di stare nel mondo – il poter vedere cosa ci riserva il futuro è l’assillo, la speranza e insieme la sfida di ogni esistenza. D’altra parte, un vecchio spot recitava che «prevenire è meglio che curare» e leggeva in questo, come a volte solo la pubblicità sa fare, un’esigenza incontenibile di fare fronte alla paura dell’ignoto.

L’antichità, da questo punto di vista, ci ha tramandato fonti oracolari che hanno, sì, guardato oltre l’orizzonte visibile delle cose; ma nel medesimo tempo hanno conservato verso l’imprevedibile – si potrebbe anche dire, l’indecidibile – un linguaggio oscuro e simbolico. Come a dire che la verità può manifestarsi al massimo attraverso l’intuizione e non certo con una formula sicura, accattivante, anche se pur sempre ammaliatrice.

La scienza, di più ancora la tecnologia, ci vorrebbe far credere che la prevedibilità del mondo sia inscritta nella sua stessa conoscenza; così precisa, così puntuale in questa epoca storica nella quale tutti i grandi misteri paiono essere stati svelati. A questo proposito tuttavia, qualcuno osservava che la gran parte della materia che compone l’Universo è additata dai fisici con l’inequivocabile appellativo di «materia oscura». Dunque, per la scienza, una sorta di resa confessata sottovoce da un lessico che, nonostante le intenzioni, mette in luce tutta la nostra prometeica debolezza.

In un interessante video, dal titolo «Dialoghi matematici: Gödel e Heisenberg, i principi del dubbio» (durata min. 14.15), si susseguono tre commenti alle celebri affermazioni di quei due personaggi. Affermazioni nelle quali emerge chiaramente l’abitudine, un po’ salottiera, di fare parallelismi tra scienza e filosofia; alla ricerca di una facile verità per chi vorrebbe arrivare a conclusioni incontrovertibili e oltre le quali non ci si debba più sforzare di cercare altro. Se invece, continua, il video, i teoremi di Gödel e il principio di indeterminazione di Heisenberg qualcosa ci dicono, è proprio il fatto che la descrizione del mondo che la scienza ci offre è sempre parziale e provvisorio. O per meglio dire: è sempre una rappresentazione costruita dallo spazio logico del linguaggio, al di fuori del quale c’è il «mondo» vero e proprio: l’eccedenza che il linguaggio non riesce a rappresentare.

Se ritengo che portare la filosofia e l’arte nelle aziende – come abbiamo fatto Antonio Spanedda e io con il progetto TRAMEDIMPRESA– sia diventato inevitabile, è perché credo che la convinzione che il mondo possa essere descrivibile affidandosi alle analisi e alle previsioni di risultato promesse dalle tecniche, sia miseramente fallito. Così come fallisce ogni giorno l’illusione di affidare la vita alla rigorosa risposta di strumenti (da quelli complessi dell’intelligenza artificiale alla ricetta per dimagrire di sette chili in sette giorni) che sono pronti a ingannarci con la loro pretesa di verità.

In questo senso, Heisenberg e Gödel ci mettono di fronte al fatto che il linguaggio logico-matematico – preciso e affidabile – è in una certa misura sempre incompleto. Ma ci avvisano anche che «incompleto», lontano dall’essere malinconicamente imperfetto, è invece la traduzione di «inesauribile»; cioè una sorgente che – è vero – risponde ai nostri interrogativi ponendoci di fronte a domande sempre nuove, ma che in tutto ciò alimenta quella facoltà umana, assai rilevante dal punto di vista evoluzionistico che è l’essere creativi.

Gettati nel mondo della possibilità, non dirimeremo probabilmente mai questo paradosso: la necessità e, contemporaneamente, l’impossibilità di prevedere. Ma potremmo imparare dagli antichi, dagli oracoli e dal mito quella lezione per la quale solo l’arte e la poesia possono leggere ciò che del mondo eccede rispetto al linguaggio. Perché solo nell’arte e nella poesia il significato di ogni forma e parola eccede il senso del testo. Solo in esse, l’eco del mondo risuona di un senso imprendibile che ancora non abbiamo imparato a godere e ad accettare; che non abbiamo ancora imparato a considerare l’accesso privilegiato a ciò cui Immanuel Kant, ammirando il cielo stellato, dava il nome di sublime. 

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