La versione migliore di se stessi
La versione migliore di se stessi è una chimera. È un’illusione e un pregiudizio che non lascia parlare la vita.

Ho combattuto, per un numero interminabile di anni, contro l’immagine che avevo di me stesso. Se mai ho avuto il coraggio di incontrarla sul terreno dell’esperienza, quest’ultima si è dimostrata il più delle volte in contraddizione con quanto avrei creduto di vedere: in parte nel male, per la convinzione di non sentirmi all’altezza della situazione; non di rado in un senso opposto, un senso tanto positivo quanto inatteso, ma comunque mai abbastanza forte da rendere giustizia alla mie aspettative. Questo atteggiamento è durato fino a quando il gioco non si è rotto. Una frattura dolorosa ma necessaria; un’evidenza che mi ha sbattuto in faccia tutto quello che di me, in fondo, non volevo vedere.
Per quanto mi è dato di capire, il problema sta esattamente qui: esiste davvero «la migliore versione di se stessi»? O non è piuttosto un’astrazione per giustificare qualche speranza e molte debolezze, in attesa che un giorno le presunte debolezze lascino spazio, appunto, alla migliore versione di sé?
Questo modello culturale è così radicato da proiettarsi in molti aspetti della vita: nell’aspirazione professionale, nei compagni di percorso, nelle conoscenze e nelle amicizie, nello specchio fatato dei figli i quali, loro malgrado, diventano la via di espiazione di una colpa in realtà inesistente. Almeno su questo punto ho cercato sempre di mantenere alta la guardia. D’altra parte, non c’è da stupirsi che «la migliore versione di se stessi» rappresenti uno dei miti del nostro tempo. Il procedere incardinato nello stile del pensiero contemporaneo – vale a dire quel particolare atteggiamento dialettico per il quale, mi rifaccio al filosofo Umberto Galimberti, il passato è un errore, il presente è redenzione e il futuro è salvezza – non fa altro che suggerire una pura e semplice considerazione: sei ciò che ancora deve venire; sei sempre altro, e di più, di ciò che sei.
In una certa misura, e nella consapevolezza che sia uno strumento di governo di sé, questo procedere, che nega il valore del presente per attendere sempre quello del futuro, ha il pregio di non farci precipitare nell’angoscia della contingenza. In una malattia, nel contesto di un problema o nell’assecondare un progetto di vita, questo atteggiamento costituisce una guida utile per ciò che potremmo definire la piena realizzazione di se stessi: il sentimento che la vita non abbia vuoti o strappi e sia, invece, del tutto significativa. C’è, infatti, nella struttura stessa dell’essere umano, nel suo tentativo di dare senso e significato all’esistenza, la necessità di anticipare una conclusione desiderabile, o quantomeno plausibile, in forma di immagine o di storia narrata. Ma ecco, allora, che questo processo esige anche che ogni immaginazione, gettata avanti a ipotizzare il nostro avvenire, venga messa alla prova dell’esperienza; e venga accantonata quando, anziché essere un’autentica possibilità aperta sul futuro, si rivela con la rigidità di un dogma, si consolida nei pregiudizi che ci hanno incarcerati.
In breve, tratti fuori dal sogno e dalla sua immagine soffocante, la «migliore versione di se stessi» si sgretola sotto il peso della sua arroganza. Essa finisce per somigliare a una chimera, a un’illusione, a un pregiudizio, appunto, eliminato il quale possiamo tornare a lasciar parlare la vita stessa. Se c’è un’eccedenza, un «di più», un miracolo nel quale riporre, non tanto le speranze, ma la ponderata ragione di ogni scelta e la contemplazione poetica di ciò che ci accade intorno – questa eccedenza è l’attesa ingenua e curiosa, priva di ogni pretesa nel determinare quale bellezza arricchirà il nostro imprevedibile cammino.