La virtù di comunicare
Comunicare è l’arte di rintracciare i propri pregiudizi e preconcetti. Romperli. Per ricostruire comportamenti, atteggiamenti, modi di scegliere e di agire.

Da più di trent’anni ho un rapporto problematico con la comunicazione. In fin dei conti, posso concludere che se comunicare è stato iil mestiere nel quale più mi sono riconosciuto, questo è potuto avvenire, come spesso accade, proprio perché ho provato l’esigenza profonda, viscerale, di colmare l’incertezza rispetto al più complicato dei precetti: «conosci te stesso». Poiché la comunicazione non è altro che l’opportunità di mettere in parole il mare tempestoso del mondo interiore, di dargli forma e con essa la comprensione di ciò che si muove dentro di noi a dispetto di qualsiasi volontà intendiamo esercitare. In altri termini, comunicare – che è, probabilmente, l’atto più semplice e immediato dell’essere umano, quello che lo connota in quanto tale – è anche la linea di confine che separa il noto dall’ignoto; o per dirla con il linguaggio della psicanalisi, la soglia che distingue il conscio dall’inconscio, l’identità individuale dall’anonimato della specie, l’Io da un Altro che dentro la nostra stessa dimora ci dirige e ci sorprende. «L’Io non è padrone in casa propria», suggeriva Freud.
Da quando, in tempi relativamente recenti, ho iniziato a nutrire lo studio e la pratica filosofica, ho potuto intensificare e portare gradualmente alla luce questo scontro. La sperimentazione di modelli comunicativi – penso a quelli non violenti proposti da Marshall Rosenberg –, i laboratori di narrazione e di socioanalisi, l’adozione di strumenti di facilitazione come quelli che impiegano i mattoncini Lego, e soprattutto le sessioni di dialogo che ho affrontato con le pratiche filosofiche in senso stretto, sono stati tutti momenti costitutivi di un più chiaro e consapevole rapporto sia con la mia dimensione interiore sia con il mio approccio comunicativo. Anzi, posso affermare che la mia abilità di comunicare e collaborare ne ha beneficiato in maniera evidente.
In questo senso, praticare la riflessione per me significa praticare la comunicazione, in un rapporto reciproco che si muove dall’una all’altra parte e viceversa. Questa coincidenza nasce da una presa di consapevolezza concreta e ricavata sul campo: se è vero, infatti, che l’atto del pensiero e quello della parola sono indissolubilmente intrecciati nel logòs – per l’appunto, parola, pensiero e insieme, ragione –, altrettanto vero è che la sospensione del pensiero e quella della parola sono intrecciate nella riflessione, nel silenzio e nell’attesa, certo non facile, di accogliere le opinioni altrui. Sospensione, di fatto, è un altro modo per definire l’ascolto.
Ma sospensione di che – ci si potrebbe domandare? Dirò, allora, che le pratiche sopra elencate mi hanno educato a considerare la comunicazione come l’esercizio di rintracciare i preconcetti e i pregiudizi ereditati dalla mia genealogia e dalle esperienze vissute; per metterli in discussione, per romperli, e per ricostruire al posto loro comportamenti, atteggiamenti, modi di scegliere e di agire. Tuttavia, vorrei precisare che non si tratta di liberarsi dai preconcetti e dai pregiudizi; cioè, da quegli strumenti che la biologia ci ha assegnato come mezzi di sopravvivenza in grado di schematizzare e interpretare la variabilità degli eventi e dei contesti. L’obiettivo è, piuttosto, per un verso più modesto e per l’altro assai più arduo. Al posto dell’impossibile compito di sradicarli, possiamo imparare a convivere con preconcetti e pregiudizi abbastanza sicuri del fatto che, addomesticati dalla consapevolezza, essi possano diventare servitori leali dei nostri scopi e delle direzioni che desideriamo intraprendere.
Guardando da una diversa prospettiva, potremmo considerare preconcetti e pregiudizi come lo scontato e l’imprevedibile che c’è dentro di noi. Qualcosa che utilizziamo nella spontaneità della comunicazione, e che pure non corrisponde alla nostra voce, ma alla voce della cultura in cui siamo immersi e dei bisogni in cui siamo radicati. Dunque, una voce che va modulata se vogliamo recitare attivamente la nostra parte.
La comunicazione è, sotto questo profilo, quell’amorevole gesto che ammansisce pregiudizi e preconcetti; che, come il realistico e fedele Sancho Panza, conduce Don Chisciotte a fare i conti con la loro realtà. E non per respingerli o per rinunciare a ciò che siamo, ma per entrare in armonia con la nostra natura, con la nostra storia, con i condizionamenti che stratificandosi ci hanno dato vita.
In conclusione, se andiamo alle rispettive radici, la pratica filosofica e quella comunicativa sono la medesima cosa nel senso che qui voglio esplicitare: comunicare è un esercizio spirituale e una ricerca di virtù; è una via di saggezza per non scontrarsi più con le pale dei mulini che nel corso del tempo ci hanno disarcionati.