Labili confini

Un confine somiglia di più a una barriera per contenere la nostra altrimenti indefinibile identità, piuttosto che un limite per non far entrare elementi estranei a essa.

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I bastioni delle città, che vediamo riaffiorare dalle strade come tratti disconnessi ed erosi dal fluire secolare del tempo, hanno dato un limite, un varco di protezione che oggi in molti vogliono rievocare con la costruzione di muri di confine a garanzia di chi, dentro quegli stessi muri, si sente minacciato e preso d’assalto dai nuovi barbari della modernità. Se quei barbari sono davvero tali, se hanno diritti all’ingresso o se dovrebbero vedersi ascoltata la loro voce – non è la prospettiva da cui mi dispongo a osservare i miei pensieri. Trovo invece più interessante guardare i confini da dentro e provare a seguirne i perimetri simbolici per vedere cosa svelano agli occhi ancora offuscati dal clamore che intorno a quei muri viene ad accalcarsi da ogni parte.

Come nasce un confine? Possiamo vederlo prendere forma se pensiamo a un individuo che, a un certo momento, afferra un bastone e solca la terra per imprimere in essa una linea, una distinzione, una separazione. Che cosa sta facendo davvero? Non sta forse proiettando fuori da sé, badando bene a marcarne l’intenzione, la sua necessità di influire sull’ambiente finanche a controllarlo e magari a sottometterne gli aspetti più pericolosi o invasivi? Non sta forse estendendo, attraverso un dominio diretto, la forma che egli vuole dare al mondo, fedelmente all’idea che di questo si è creato nella propria immaginazione? Se allarghiamo lo sguardo a sufficienza, visti da questa angolazione, muri e confini diventano il costrutto fisico dell’idea stessa di cosa per noi sia la vita, la relazione con gli altri, il rapporto con l’ambiente, e tutto ciò che informa la nostra esistenza.

Un confine viene perciò a somigliare di più a una barriera per contenere la nostra altrimenti indefinibile identità, piuttosto che un limite per non far entrare elementi estranei a essa. Sembra quasi anzi che sia proprio la sollecitazione di una cieca paura, pronta a esplodere come una massa incontrollata di sentimenti senza direzione e senso, a provocare il bisogno di costruire una cerchia di confine e di arginare così l’inquietante tormento di avere dentro di sé un incomprensibile caos. Edifici, muri, bastioni, strade – sono aspetti diversi del potere creatore e trasmutatore, che materializza gli schemi attraverso i quali leggiamo l’esistente intorno e (soprattutto) dentro di noi.

La storia dell’espansione romana ci ha lasciato in eredità una concezione differente di confine. Un limes fatto di linee, sì fortificate e tese a preservare le forme dell’impero; ma che sono al contempo strade: intervalli da percorrere, attraversare, utilizzare come canali di navigazione per le informazioni e le merci.

Sarebbe interessante se iniziassimo a pensare alla nostra individualità (in-dividualità, cioè indivisibilità) come a un gomitolo complesso di storie con i bordi sfilacciati, indefiniti, sfibrati in filamenti secondari che si intrecciano ad altri gomitoli. In fondo questo sovraccarico di comunicazione che ordinariamente viviamo ogni minuto della nostra giornata, ci dice che abbiamo costruito orecchie impermeabili a nuove parole e che dentro i muri non ci sono tesori da proteggere ma prigionieri che hanno bisogno di essere al più presto liberati.

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