L’avvenire delle nostre scuole

Molti sono i resoconti sulle promesse dell’intelligenza artificiale. Alcuni di essi riguardano la scuola e l’educazione. Ma che cos’è l’educazione?

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6 Ways Artificial Intelligence and Chatbots Are Changing Education è uno dei sempre più diffusi resoconti sulle promesse dell’intelligenza artificiale. In questo caso applicata a quel sensibilissimo settore dell’educazione che influisce sia nei modi in cui trasferiamo alle nuove generazioni la nostra eredità culturale, sia nello sviluppo dei nostri intorni sociali, che presto quelle generazioni inizieranno a condizionare con scelte e comportamenti.

I filoni di innovazione che l’articolo si occupa di delineare riguardano principalmente due aspetti: le pratiche di valutazione e restituzione del feedback da parte dei docenti; e la consultazione sempre più personalizzata di grandi bagagli di conoscenze da parte degli studenti. Con la prefigurazione, ancora più seducente, di strappare i protagonisti al modello che vede nella matrice della fabbrica novecentesca la produzione seriale del sapere, indifferente alle attitudini e alle capacità del singolo.

Prima di esultare al ritmo incalzante delle innovazioni tecnologiche, però, mi domando se i modelli educativi che ci vengono proposti rappresentino davvero un salto di qualità sul piano dei contenuti, o se invece non facciano che replicare, in una forma dissimulata ma in fondo ancora più penetrante, i meccanismi di omologazione della conoscenza che ben conosciamo. Quelli fondati su una concezione quantitativa del sapere che ha fatto della misurazione – in voti, in test, in questionari di soddisfazione – un dogma di inappellabile necessità; quella indicata da molti come l’esito inefficiente e infruttuoso di una scuola distaccata dalla vita. Che significa, del resto, una conoscenza personalizzata? È davvero un’autentica vocazione al rispetto delle attitudini individuali, o è una spinta ancora più decisa verso la specializzazione delle discipline: cioè la frammentazione cognitiva, l’isolamento nozionistico, l’assenza di capacità relazionale – nel senso di produrre relazioni tra fonti diverse – e dunque critica. Qualcosa di analogo, per certi versi, accade con i social media: i quali ci propongono contenuti specializzati fatti per riconfermare le nostre conoscenze, salvo poi privarci di una visione complessa della realtà (Le Scienze, 7 marzo 2017).

In estrema sintesi, la questione può essere riformulata nella domanda: che cos’è l’educazione? Alla quale, personalmente, rispondo con l’etimo del condurre fuori e non del mettere dentro. L’educazione, perciò, intesa non come riempimento del contenitore-studente, secondo la dinamica cartesiana della cosa pensante che informa – ma anche modella, domina, sottomette – la cosa pensata; quanto piuttosto l’educazione come attività creativa emergente in cui l’apprendimento assume le forme del costante rovesciamento di prospettiva e del collegamento tra concetti, volte a re-immaginare in maniera alternativa le contraddizioni che la realtà così riccamente ci offre nella sua più spietata imperfezione. Non avremmo forse bisogno, in questi tempi di crisi, di una tale elasticità?

Va detto che il dibattito è ben più antico. Già Nietzsche, nella seconda metà dell’Ottocento, si interrogava Sull’avvenire delle nostre scuole e sul maligno incanto che paralizza ogni tentativo di mettere «la cultura in immediato contatto con l’ambiguità dell’esistenza». E sottolineo «l’ambiguità dell’esistenza», poiché questo in effetti è il nodo più centrale.

Che cos’è l’educazione? Controllare, quantificare, misurare, rendere riproducibile e innocua la variabilità? O insegnare una pericolosa incertezza, densa però dei semi più fecondi?

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