Maschere di felicità

Le maschere si prendono gioco dei sentimenti tristi, problematici, ma non li nascondono. Oggi riconsiderarli è una risorsa per vivere e riprogettarsi.

Ludovico Ottavio Burnacini, Disegni di costumi per il "grottesco" e la commedia dell'arte, 1680

È tempo di Carnevale, una tradizione con la quale non ho mai avuto un particolare rapporto di interesse. In questi giorni, però, mi è tornato alla mente un ricordo lontanissimo: la canzone del Barlàn – la maschera di Ghemme, in cui ho vissuto per oltre trent’anni – e le caramelle che ricevevo intonandola insieme ai miei compagni di prima o seconda elementare.

A Ghemme, come a Borgosesia (dove attualmente abito), la tradizione della maschera ha a che fare con il magone: quella strozzatura dello stomaco, tutta dialettale, che descrive una malcelata commozione quando un dispiacere, una malinconia, un attimo triste si inseriscono furtivamente nella vita. «Se anche avessi un magone per una qualche preoccupazione – traduco liberamente l’inno del Barlàn – posso soffocare in una canzone quel che è duro da mandar giù!». E, ancora più esplicitamente, a Borgosesia il Peru (Pietro) Magunella è accompagnato dai suoi Magoni, beffardi e bevitori, che nel primo giorno di Quaresima celebrano il funerale della maschera e il ritorno alla normalità. In un articolo della storica locale Franca Tonella Regis è ben descritto questo corteo di personaggi in frack: una rappresentazione sarcastica, quasi grottesca, che, nella filosofia da Nietzsche in avanti, si potrebbe a ben ragione definire «nichilista»: poiché a celebrarla è tradizionalmente la borghesia del luogo, desiderosa di infrangere ogni valore e di far trionfare un puro quanto esasperato e vuoto edonismo.

Per restare ancora con Nietzsche, il Carnevale è l’emblema del prorompente spirito dionisiaco. Ma il piacere, il godimento anche sfrenato – richiama ancora la storica che prima citavo – è la traccia di una più profonda invocazione: quella che segue al rigore e alla miseria dell’Inverno con l’eliminazione di tutto ciò che è brutto, vecchio, pronto da dimenticare, in vista di una vita che si rigenera. Insomma, un motto che, nella tradizione contadina, evidentemente si ripeteva per affermare che «anche quest’anno ne siamo venuti fuori».

Dunque è proprio da qui che vorrei ripartire. Le maschere si prendono gioco dei sentimenti tristi, problematici, ma non li nascondono. Anzi, li deformano e li rendono partecipi della quotidianità plasmandone gli aspetti più sgradevoli come argilla da modellare. La maschera è, in fondo, il contenitore di una fertilissima immaginazione con la quale esplorare nuove possibilità di mondo. I bambini ne sono interpreti per eccellenza.

In una società che pretende performance e successo, che vorrebbe far apparire soltanto maschere di felicità, ecco che le maschere carnevalesche diventano quasi protettrici di quei sentimenti che la modernità vorrebbe espellere da se stessa. Nel tentativo dissacrante di esorcizzare il dolore, la frammentazione di senso che sperimentiamo e la fragilità che ci fa salire un magone dal cuore diventano coriandoli e stelle filanti. A ricordarci che, sì, potremo anche frantumarci contro gli ostacoli del nostro inverno interiore. Ma da lì esplodere in una varietà di colori: utili quando abbiamo bisogno di conoscerci meglio e rirprogettare, a ogni caduta, la nostra esistenza.

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