Mense d’amore

Amore è la costruzione di un senso che passa attraverso i sensi. È la memoria tessuta in un fiume di colori, volti, odori, sapori, ricordi. È la connessione tra corporeità e spiritualità.

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Ho trascorso i primi mesi di corteggiamento e gli anni esordienti di matrimonio a tavola. Più che un luogo fisico, però, essa è stata uno spazio e un tempo immaginifico; un angolo tra la concretezza incarnata dalla materialità del cibo e lo sconfinamento in una esplorazione che ci univa e che andava costruendo un mondo interiore condiviso, fatto di propositi, aspirazioni, bisogni e progetti.

Quando allora, di recente, ho partecipato a un laboratorio sull’amore, non ho potuto fare a meno di pensare a quest’ultimo come al gesto di apparecchiare la tavola. Da una parte, perché apparecchiare è appunto un gesto, un’azione e non uno stato; un intervento attivo e intenzionale che trasforma l’ambiente e gli attribuisce uno specifico significato. Dall’altra parte, perché la tavola, in quanto spazio simbolico di legami, di affetti, di valori e di ricordi, condensa dentro di sé un modo d’essere che è il frutto di una storia. Ma anche l’esito di un’esperienza in continua tensione tra la ricerca di un’affermazione individuale e la disponibilità a coltivare un terreno comune.

C’è dunque, nella dimensione amorosa, un primo piano che mette in relazione l’elemento più propriamente corporeo – sensoriale ed emotivo – con quello intellettuale e spirituale. C’è la fame, il puro istinto ad agire; ci sono i sensi, la soddisfazione del piacere individuale; e c’è la costruzione di un dialogo che tiene insieme i soggetti coinvolti. Ascolto e comunicazione hanno un ruolo di rammendo essenziale nel cucire la tovaglia in cui l’esperienza amorosa, come su uno sfondo di riferimento, prende forma e significato.

Tuttavia, se questa operazione regge, forse perché un secondo piano interviene nella scena. Nell’ordito di quella tovaglia, infatti, si annodano tanti fili d’oro senza i quali sarebbe impossibile articolare qualsiasi tipo di discorso. Odori, sapori, suoni, volti, ricordi – forniscono le sillabe con le quali ci costruiamo giorno per giorno il nostro personale vocabolario d’amore. Se volessimo fare riferimento a una fenomenologia della tavola, al modo in cui la nostra esperienza d’amore si forma nei luoghi della coppia, della famiglia o dell’amicizia, potremmo individuare accanto agli odori e ai sapori degli alimenti una sequenza interminabile di stimoli. Il tintinnio delle posate, gli scrosci d’acqua che riempiono i bicchieri, il croccare del pane spezzato, il fruscio delle braccia sulla superficie del tavolo, l’eco delle voci che riempiono la stanza, le vicende dei commensali, le emozioni e le passioni da cui essi sono animati, le espressioni che pronunciano, il tono e il significato che attribuiscono, la concatenazione di associazioni che i cibi serviti producono, la narrazione intorno alla loro provenienza, i mondi a cui rimandano e che ci possiamo immaginare, il luogo in cui la mensa è immersa, gli oggetti alle pareti e ciò che vogliono rappresentare, le stanze che la circondano, i rumori esterni, il chiacchiericcio del vicinato, e così via; fino a perdersi in un distante orizzonte di cui soltanto un’eco lontana si riverbera nelle parole che utilizziamo per indicarlo.

In breve, l’amore è la costruzione di un senso che passa attraverso i sensi. È la memoria tessuta in un fiume di sollecitazioni e di moti interiori. Ma, soprattutto, è la rievocazione di un dialogo tra corporeità e spiritualità; una ricerca di come, nell’essere umano contemporaneo, questi due aspetti possano comunicare e compenetrarsi l’uno nell’altro.

Nella metafora della mensa, l’amore è l’esperienza che intercetta e organizza le altre esperienze. Si può allora parlare di amore come di un’eucarestia: etimologicamente, il «ringraziamento» per un tempo che, intessuto di significato, è anche intessuto di valore; un luogo di «molta grazia», poiché questo è il sentimento che si prova quando un’unità, un ricongiungimento tra le parti, un abbattimento dei confini e delle definizioni che il linguaggio ha generato, sembra riemergere dal flusso confuso e molteplice degli eventi.

In virtù di questa qualità sintetica, io credo, l’amore è un rituale di edificazione nel rapporto con se stessi e con gli altri. La parola «amore» – forse prima di ogni altra parola – è il resoconto di come abbiamo creato il mondo nei nostri occhi e nel nostro cuore. Qui perciò troviamo la chiave quando avvertiamo l’esigenza di cambiarlo.

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