Ogni urgenza a suo tempo

La cultura della prestazione ha come corrispettivo il continuo senso dell’urgenza, il dover intervenire senza mettere distanza tra azione e reazione.

René Magritte, La condizione umana, 1933

In un ritiro filosofico cui ho partecipato, è venuta fuori l’osservazione che «l’urgenza fa perdere di vista le cose importanti».

In effetti l’urgenza è sopravvalutata. Basta dilatare la finestra di tempo da cui si guarda fuori per accorgersi che, il più delle volte, urgente è l’angoscia di non essere all’altezza del mondo; urgente è la performance che viene ritenuta indispensabile ad affrontare qualcosa, piuttosto che la cosa stessa.

La cultura della prestazione non può che avere come corrispettivo il continuo senso dell’urgenza, del dover intervenire immediatamente in ogni situazione. La prestazione — etimologicamente «lo stare avanti» — racconta l’ossessione di un modo d’essere che, consumando il presente come una merce (prestazione, del resto, indica anche un rapporto economico) è costretto a immaginare costantemente il proprio futuro.

Intervenire immediatamente, rinunciando a ogni mediazione (e meditazione) possibile, senza porre alcuna distanza tra azione e reazione, finisce per assottigliare ancora di più il momento presente, fino a renderlo un bene preziosissimo ma deperibile, soggetto a un’incessante data di scadenza.

È invece la distanza a ripristinare l’ordine delle cose – se si vuole, la capacità di mantenersi inattuali rispetto alle contingenze. Porre una distanza tra azione e reazione equivale, infatti, a creare una memoria che si dispiega nelle scelte e nelle esperienze compiute, e che, proprio per questo, può discriminare l’importante da ciò che non lo è. Essa, in altre parole, ci dice chi siamo; restituisce spessore alla precarietà del presente; riapre la finestra sull’istante vissuto anziché sulla sua rappresentazione. La memoria, che non dimentica le cose importanti, colloca ogni urgenza a tempo debito.

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