Origine e corpo della memoria

L’origine, e di conseguenza, la memoria non sono qualcosa di materiale collocato nel tempo e nello spazio. Sono piuttosto un processo culturale di creazione di significato che dà corpo alla vita.

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Per un breve periodo ho insegnato in una classe delle scuole superiori. In occasione della Giornata della Memoria, i ragazzi mi hanno esplicitamente dichiarato l’insofferenza verso quel rituale comandato, ripetuto con le medesime parole fin dalla loro prima elementare. Non ho potuto – né voluto – dare loro torto. Peraltro, le cronache di guerra degli ultimi due mesi dimostrano in maniera piuttosto eloquente che la commemorazione di questi avvenimenti non procede, di fatto, oltre l’etichetta; e che, al limite, il ricordo di un evento si materializza nella sua pienezza solo quando qualcuno ne è concretamente coinvolto.

Tra poco verrà celebrata la ricorrenza del 25 Aprile. Anche in questo caso, il sostanziale esaurimento, per ragioni anagrafiche, dei testimoni di quella vicenda ridurrà la memoria già precaria a un fiume ormai completamente in secca.

In una conferenza su L’archeologia, il filosofo Giorgio Agamben analizza in maniera dettagliata, con una serie di esempi, la nozione di origine e, indirettamente, quella di memoria. L’origine non è un punto situato cronologicamente in un luogo e in un tempo determinati. Questa – aggiungo io – è solo la sua versione, per così dire, materialistica, che una cultura fondata sull’evidenza e la certificazione del risultato può sperare di proporre. Sul piano invece immateriale dei significati, essa è piuttosto la sorgente di una continua rigenerazione; la quale, certo, si concretizza in oggetti tangibili, il cui valore, però, li supera e li trascende collocandosi sulla linea di confine tra il materiale e lo spirituale. Il caso, per me, più illuminante che Agamben riporta è quello dei testi antichi: quando io consulto una fonte – poniamo Platone – non leggo mai il testo dell’autore, ma il lavoro culturale stratificato nei secoli, dunque la sua vitalità, da cui l’edizione attuale trae la sua esistenza.

Io credo che, a grandi linee, la memoria sia sottoposta al medesimo lavoro di scavo e di elaborazione. Essa è viva, autentica, quando chi la testimonia ha fatto propria l’incarnazione e la prosecuzione del processo di ricerca di chi è venuto prima di lui.

Questa attività, del resto, ci è nota. Viene fatta abitualmente – anche se spesso incolsapevolmente – nelle famiglie, nel momento in cui i linguaggi, le usanze e il modo di sentire il mondo (filosoficamente: logos, ethos e pathos) vengono comunicati in eredità da una generazione all’altra. Così, che si tratti di occasioni gioiose o di destini tragici, il corpo della memoria non si assottiglia e si distrugge come quello sottoposto al ritmo incalzante del Rock and Roll che Salvador Dalì (1957) ha rappresentato con la sua immaginazione. Il rock’n’roll è un genere che amo molto. Ma qui lo interpreto come la furia divoratrice del mondo contemporaneo nella quale non c’è spazio per la memoria e per l’elaborazione meditata dei significati con cui dare senso energia e riempimento alla vita. Tutt’al più c’è un consumo di notizie e di avvertimenti che presto devono lasciare il campo a nuove promozioni.

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