Parole e nuvole
Le parole sono la storia della nostra esistenza. Quanto più sono leggere, tanto più rivelano la verità di un percorso di vita.

Le parole vanno, vengono, a volte ritornano – come Le nuvole descritte da Fabrizio De André: «per una vera / mille sono finte / e si mettono tra noi e il cielo / per lasciarci soltanto una voglia di pioggia».
Da qualche tempo a questa parte sto inseguendo la leggerezza delle parole, in qualche modo simile a quella delle nuvole. L’impegno è rendere le mie parole, scritte o parlate che siano, sottili come un alito di vento in modo da rimuovere ogni scoria, ogni eccedenza, che disturbi la loro chiarezza e oscuri il significato che esse hanno ereditato nel corso della loro vicenda. Ciò che appare un’attività formale è, in realtà, un esercizio spirituale, perché ha lo scopo è di ripulire non tanto il linguaggio quanto l’anima che lo modella dalle incrostazioni che l’esperienza deposita al suo passaggio.
Ogni esperienza, infatti, è l’elaborazione di un concetto che si appoggia – ma al tempo stesso si sovrappone – ad altri concetti precedentemente elaborati, e che si appresta a diventare a sua volta sedimento per i concetti che verranno. Prendendo a prestito una suggestione che ricorre nel pensiero di Bergson, potremmo, allora, chiamare inconscio l’esito di questa progressiva accumulazione: una lunga serie di immagini di cui non siamo più consapevoli, ma che continuano a definire sotto traccia l’identità del nostro percorso.
La ricerca della leggerezza è, perciò, il tentativo di restituire vitalità ai pensieri immobilizzati sotto il peso di quella storia; la quale, a dire il vero, ci costituisce, a partire da un’eredità collettiva, ben prima della nostra nascita. Qui leggerezza vuol dire non più nozioni statiche, concetti estratti singolarmente dalla geologia del nostro vissuto, ma una memoria in costante evoluzione nella quale le parole si intrecciano, si supportano, si sviluppano in una trama coerente tale da portare alla luce la vocazione del nostro «romanzo esistenziale».
Da una parte, allora, la leggerezza – esercizio tutt’altro che semplice e immediato – è l’atto con il quale le parole, paradossalmente, smettono di essere pronunciate come un’ovvietà, come qualcosa che non ha bisogno di altra giustificazione al di là di se stessa. In una certa misura, infatti, è proprio l’ovvietà, l’abitudine a consolidare i confini del discorso, che genera i fraintendimenti e la conflittualità oggi particolarmente diffusi. La leggerezza, in altri termini, è l’educazione a prendere coscienza che ogni parola, al pari di ogni persona, ha dentro (o sotto) di sé un intero universo che l’accompagna.
Dall’altra parte, rendere leggere le parole equivale ad accrescerne lo spessore, fino a identificare, tra le tante che «si mettono tra noi e il cielo», quelle che più di altre ritornano e, per questo, raccontano la verità del nostro cammino. «Per una vera, mille sono finte». Ma, una volta individuate, ci fanno comprendere quanto il vocabolario che adoperiamo sia il resoconto inconsapevole di tutta una vita.