Pause dalla realtà

Prendersi una pausa dalla realtà è lasciarsi venire a trovare. È un esercizio di meditazione in cui trasformare consapevolmente il senso della propria esistenza.

Valentino - Walking throught my mind - 2021

Come se sprofondassi in un sogno, mi capita qualche volta che nelle mie passeggiate perda completamente il contatto con la realtà. Una piena di pensieri, immagini, volti e conversazioni si affaccia su uno schermo virtuale di cui non ho controllo. Non sono io che decido cosa guardare; sono invece le parole, che definiscono e strutturano quel flusso, a stabilire il ritmo e a romperlo; ad aprire significati che non avevo ancora considerato.

Quando mi risveglio, mi ritrovo letteralmente «altrove». Mi ritrovo, cioè, sorpreso: sia perché il mio corpo mi ha condotto autonomamente in un altro luogo, quasi che sapesse dove potevo essere diretto; sia perché, lungo questo percorso contemporaneamente concreto e al di fuori del reale, la mia immagine del mondo si è impercettibilmente (ma sostanzialmente) trasformata.

Ascoltando la conferenza di Marco Invernizzi sul significato dell’esperienza cinematografica, ho riconosciuto in essa una traduzione piuttosto fedele di quanto sopra ho descritto. Ma ho anche raccolto, dalle conclusione che la conferenza propone – vale a dire: che la frequentazione del cinema, e più in generale di qualsiasi forma d’arte, serve a ripescare il sapere dimenticato dentro di noi, dando così direzione a una conoscenza tecnica altrimenti sterile –, un ampliamento del concetto di immaginazione che ho di recente trattato.

Immaginare, avevo scritto, è un esercizio di ricongiungimento tra anima e corpo; è una ricerca che mette in discussione i pregiudizi con i quali leggo il mio rapporto con il mondo; ma è anche – voglio aggiungere ora – la disponibilità a incontrare l’imprevedibile e l’incerto che sta dentro di me, la mia contraddizione, l’alterità che non conosco. In tal senso, riprendendo il discorso di Marco Invernizzi, l’immaginazione è il sapere che mi costituisce e che ho dimenticato di avere. In ultima analisi, essa è il racconto di un conflitto: da una parte, il desiderio e le possibili vie per dirigermi «altrove»; dall’altra parte, la consapevolezza della mia radice, il riconoscimento di una storia – fatta di biologia, di incontri, di educazione, di schemi famigliari e sociali e, a sua volta, di conflitti desideri e possibilità – che non solo mi caratterizza, ma mi identifica, mi rende ciò che sono e che altro non potrei essere. Di nuovo: ciò che mi appare «altro» (e «altrove«) da me.

L’immaginazione, allora, è un esercizio di meditazione in cui – come al cinema – posso lasciare che i pensieri, i volti, le immagini e le conversazioni mi vengano a trovare. È uno spazio in cui lasciare che le cose accadano. E che, così facendo, trasformino nella sostanza il mondo come io lo rappresento. Riprendendo una terminologia che ho imparato nei rilassamenti yoga, l’immaginazione è un Chidakasha, uno spazio buio e infinito. Una pausa dalla realtà in cui non posso certo riscrivere da capo la mia mia vicenda; però posso riscriverne consapevolmente il senso – la connessione e la sequenza dei suoi punti – ogni qual volta quest’ultimo rimandi a un finale che non mi convince.

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