Povertà
Povertà è l’esercizio del saper togliere. Far emergere incertezze e contraddizioni. Per poi trovare il passo, ciò che per ciascuno è la giusta misura.

Ho attraversato una fase della mia vita in cui l’apparente scarsità di mezzi ha confinato il mio sguardo in un vicolo cieco, fatto di una ininterrotta apprensione per quelle ambizioni che non riuscivo a colmare. Solo una volta uscito, ho riletto questa fase come un periodo di miseria; o, per usare un’espressione che mi ha profondamente colpito, «un esserci così come capita» che riassume bene la vanità di quei momenti.
La frase è tratta da una conferenza nella quale – vale la pena ascoltarla – Luigina Mortari commenta la filosofia di Maria Zambrano e chiama in causa, fra gli altri concetti, quello relativo alla capacità di togliere, di sottrarre, di arrivare a contemplare solo l’essenziale: ciò rispetto a cui, eliminato anche il minimo elemento in più, la possibilità di cogliere la pienezza della propria esistenza viene a mancare.
Una scarsità, perciò, volontaria, che non è miseria ma esercizio di povertà; tentativo di una condotta frugale sotto tutti i punti di vista. Povertà, in questo senso, è dunque la condizione che consente di coltivare il minor possesso possibile perché, aggiunge Luigina Mortari, la vita è già sovrabbondanza, è un continuo accumulare le esperienze da cui vale la pena alleggerirsi, separarsi, prendere distanze e a volte congedo. Nelle esperienze infatti, al di là dell’accumulo in quanto tale, che finisce per costituire un peso da portarsi appresso, sono racchiusi altrettanti condizionamenti i quali – mi viene da dire – finiscono per avvolgere il valore delle esperienze stesse in una ragnatela invisibile ma prepotente, una sicurezza che non rappresenta mai ciò che promette.
Piuttosto, diventa efficace lasciar emergere le contraddizioni e le incertezze che, nella povertà, risaltano e si mostrano in tutta la loro evidenza. In un certo senso allora, la povertà, è una pratica che richiede continuamente di intonare i possessi, i pensieri e le parole – tre strumenti di cui ci serviamo per racchiudere il mondo in uno schema stabile e sicuro – in modo tale che contraddizioni e incertezze, altrimenti occultate dall’abbondanza, diventino un luogo di incontro con la propria interiorità. Ma incontro significa dialogo, ricerca di ciò che per la nostra misura è assolutamente essenziale alla vita. Una «giusta misura», potremmo anche dire. Intendendo con essa il ritmo e le proporzioni con cui ciascuno di noi sente di poter dare senso e sostegno al cammino che sta percorrendo. Una distanza che non è troppa o troppo poca dalle richieste del cuore; che non ci possa annebbiare ma neppure farci struggere.
Metafora, non solo calzante ma anche utile per incarnare questo atteggiamento, credo sia quella del camminare. Fredéric Gros, nel libro Andare a piedi. Filosofia del camminare (Garzanti, 2013) riferisce che è «nelle lunghe escursioni che si coglie bene questa libertà tutta di rinuncia. Quando si cammina da molto tempo, arriva un momento in cui […] si sente sulle spalle il peso dello stretto necessario, ci si dice che basta e avanza – non occorre poi molto per tenersi in vita». A dir la verità, non credo di aver mai fatto esperienza di marce così impegnative, salvo quella che mi coinvolge nell’atto di esistere. Eppure, anche nelle brevi passeggiate mi accorgo che «è nel momento in cui si rinuncia a tutto che tutto ci è offerto, nel momento in cui non si aspira più a nulla che tutto ci è dato, a profusione. Tutto, vale a dire l’intensità stessa della presenza».
Trovare il passo, la misura. E con essa, osservare, collegare il mondo dentro con il mondo fuori, come se un filo d’oro ci trattenesse in un’unica trama con le cose. Del resto, il puro atto di camminare è una delle attività più povere nel senso che qui ho cercato di esprimere; una delle attività più sobrie ed economiche.
Qualche volta mi succede di rincasare più vissuto di quando sono uscito per una piccola scampagnata a piedi. Qualche volta, appunto: quando ho il coraggio di abbracciare la mia povertà.