Qualcosa è cambiato

Il cambiamento richiede un’inversione di prospettiva, non sono io a mutare ma lo sfondo sul quale mi percepisco. Cambiare è fluttuare su quello sfondo.

Foto di Sam Forson: https://www.pexels.com/it-it/foto/specchio-d-acqua-sotto-la-nebbia-154246/

Nel film Qualcosa è cambiato (1997), il personaggio di Melvin mi racconta una storia che è anche la mia. Il bisogno, che mi ha accompagnato per molto tempo, di organizzare i miei vissuti in un modo stabile e duraturo; in un modo cioè che, visto con gli occhi di oggi, non è imputabile soltanto come pensavo a una necessità di ordine e di controllo, ma piuttosto al desiderio primitivo di contrastare il cambiamento.

Emanuele Severino descrive in effetti così la nascita della filosofia: un evento originato dal terrore del dolore e della morte. Melvin, in questo senso, non è che l’erede – forse un po’ grottesco ed estremo, ma non per questo meno realistico – di quella tradizione che già a partire dall’epoca del mito ha costruito strumenti e tecniche per imprimere un significato rassicurante all’esistenza. Volendo vedere in opera la natura di questa tentativo, forse è sufficiente scorrere un qualsiasi app store per verificare come tutte le applicazioni, e il marketing che le regola, siano progettate all’insegna dell’efficienza, del controllo e del risparmio di tempo: vale a dire del contrasto all’imprevedibile di cui il dolore e la morte, sempre incombenti sul tempo della vita, sono per eccellenza l’incarnazione.

Questa tradizione, però, vale fintantoché il soggetto – cosa o persona che sia – è in primo piano rispetto a uno sfondo immaginato come immobile – una concezione del mondo che Newton ha descritto efficacemente con le leggi della fisica classica. Ecco allora che quel soggetto, rispetto allo sfondo, si muove, cambia, evolve, ha una traiettoria e una destinazione, una missione e una finalità: si può dire che migliora o che peggiora, che matura o regredisce, che nasce o che muore, perché è lo sfondo a fare – come si usa dire in fisica – da sistema di riferimento.

Se però la prospettiva viene invertita, ed è lo sfondo ad assumere il ruolo di protagonista, allora diventa concepibile un’altra realtà: è lo sfondo a essere in movimento, mentre il soggetto diventa una forma, per così dire, rallentata, una parziale cristallizzazione, di quell’incessante movimento che è la vita in quanto tale. Visto da questa angolazione, non sono più io-soggetto a cambiare e a trasformarmi, ma è tutto ciò che sta intorno a me a modificare il suo stato, a fluttuare come una marea che si perde all’orizzonte.

Cambiare, allora, vuol dire dondolare; farsi trasportare dagli eventi in uno stato tutt’altro che passivo, dal momento che resta prerogativa del soggetto determinare quali elementi lasciare correre su quello sfondo e quali invece trarre in primo piano per definire di volta in volta la propria identità-in-divenire. Si tratta di un’attività consapevole che trova la sua traduzione più immediata nell’improvvisazione: un ascolto attento, profondo e non meno metodico della realtà che, al momento opportuno, si concretizza nella gestualità dell’azione. E, a dire il vero, è la frequentazione dialogica con un artista che mi ha educato ad accogliere con maggiore disponibilità l’incertezza e l’imprevisto. La prima cosa che ho imparato in questa direzione è che nell’arte ogni errore è la traccia di un percorso che senza quelle deviazioni non potrebbe mai accadere.

La storia di Melvin racconta, appunto, che, non qualcuno, ma qualcosa è cambiato; qualcosa nel fluttuare quasi impercettibile dello sfondo che il personaggio non ha potuto far altro che assecondare. E così Melvin, alla fine del film, è solamente se stesso: né meglio né peggio di prima, se non nella misura in cui questo giudizio ci fornisce uno strumento di significato con il quale compiere la scelta di dove collocarci.

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