Quando la filosofia mi ha salvato la vita

Ogni giorno è un salvarsi la vita. Quando la rivelazione di qualcosa di sé irrompe nel paesaggio e ne riscrive la mappa.

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Non è avvenuto in un minuto e in un’ora precisi, né in un giorno speciale della mia vita. È accaduto volta per volta. Perciò non c’è neppure un istante eroico o iconico a rappresentare la salvezza dalle aree impervie del paesaggio che, grazie alla filosofia, ho potuto superare.

Potrebbe allora sembrare che il viaggio sia avvenuto per soste e punti di ristoro – «obiettivi» direbbe qualcuno. Neanche in questo caso però l’affermazione sarebbe aderente ai fatti, dal momento che tutto l’itinerario è stato scandito da impercettibili interruzioni, da discontinuità e capovolgimenti, da riflessioni e ripensamenti che hanno segnato, ma senza programma, una differenza sostanziale tra il prima e il dopo. Potremmo chiamare questi istanti illuminazioni, e non saremmo del tutto fuori strada se a esse attribuissimo un carattere ai margini del divino o, quantomeno, del sognante rapimento che le rivelazioni producono.

Di sicuro la mappa che tenevo in mano per orientarmi indicava tre percorsi possibili che si intrecciavano frequentemente e sui quali dunque camminavo confondendone i segnavia. Il primo dei sentieri mi ha aiutato a mettere dei limiti al mio desiderio di spiegazioni. Come ha scritto Paolo Dal Prà nel suo impeccabile libro Metafisica (Mursia, 2021), a un certo punto le spiegazioni devono finire. A un certo punto è necessario abbandonarsi all’inspiegabile; che nel nostro contesto però è delineato dal cammino stesso dell’esperienza, eccitante e angosciante al medesimo tempo come tutte le strade con destinazione ignota. La seconda linea della mappa riportava invece le istruzioni per guadagnarsi una maggiore consapevolezza di sé. L’auto-osservazione del mondo interiore ha contribuito a chiarificare, a tirare le fila di quel che là dentro stava succedendo. I pensieri hanno iniziato a distinguersi dai sentimenti; le immaginazioni da ciò che credevo essere reale; e le intuizioni, così preziose per contenere la paura, si sono scrollate di dosso le credenze che le confondevano e le sovrastavano. E in ultimo la cartografia di quel luogo, solo in apparenza perturbante, ha domandato uno sforzo tanto semplice quanto impegnativo: quello di chiedersi «che cosa mi piace» e «che cosa non mi piace», «di che cosa ho bisogno» e «di che cosa non ho bisogno». Tutto questo con un solo scopo: trasudare le parole che non sono le nostre, che non vengono plasmate dall’esperienza con cui incarniamo in prima persona la vita, e che quindi si portano dietro una schiera di significati infiltratisi dall’esterno nel corso degli anni. Significati che ci vengono dalla famiglia, dalla scuola, dalle amicizie frequentate, dalle relazioni e dai contesti di lavoro, da ciò che «la gente dice» se il brusio di fondo di un’intera società ci attraversa impertinente le orecchie prive dei filtri del pensiero.

Accettare. Osservarsi. Individuare i pregiudizi e i punti di vista dai quali modelliamo la nostra personale idea del mondo. Presi da soli, questi tre atteggiamenti non hanno un particolare valore, anzi!… L’accettazione si riduce a rassegnazione. L’osservazione diventa critica gratuita. Lo smascheramento dei pregiudizi personali si converte in un’angoscioso timore di inadeguatezza.

Perciò il cammino, in modo del tutto paradossale, ha bisogno di essere confuso, di perdere l’orientamento. La mappa, in fondo, avrà certamente qualche errore. I segnavia, in non rare occasioni, saranno coperti dall’erba o dai cespugli. Ogni giorno sembrerà che l’attesa di una meta non possa mai finire. E in qualche modo le cose stanno proprio così. Ma a dir la verità, oggi c’è più luce intorno, i sentieri sono puliti e la mappa – lo sappiamo – vale per quello che potrà dirci di noi alla fine di ogni giornata.

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