Ripensare la crescita

Ancora prima di qualsiasi tecnica conta la capacità di immaginazione, conta saper attribuire alla storia che viviamo nuovi significati e direzioni.

Fino a qualche mese fa non avrei mai pensato di definire il mio campo di ricerca «crescita personale». Ho sempre interpretato questo termine con la categoria di progresso illimitato che ha dominato la società industriale dentro la quale sono cresciuto; e che, con forme diverse, lo spirito dei tempi riproduce in ciò che Carol Pearson, nel libro Risvegliare l’eroe dentro di noi, chiama mirabilmente società guerriero-cercatore; vale a dire una società di impronta prevalentemente maschile in cui i modelli dominanti sono quelli della lotta per la sopravvivenza e della continua ricerca del risultato.

Per quanta sensibilità si sia sviluppata nel corso degli ultimi anni circa la necessità di modificare i modelli economici e gli schemi sociali che regolano intimamente la nostra vita, resta da vedere se il desiderio di cambiare registro scava veramente fino alle radici. O se invece fa della retorica delle emozioni, della ricerca interiore e delle tante proposte alternative alle costrizioni della tradizione, una versione edulcorata di una ben più necessaria e sostanziale revisione dei modi in cui abitiamo la concretezza delle cose.

Paolo Iabichino, copywriter per una grande agenzia internazionale di comunicazione, ha scritto di recente su Medium un articolo leggero ma sferzante che, ironizzando – e neppure tanto – sulle emozioni ne mostra il carattere spesso aleatorio, funzionale a un pubblico che ama in fondo farsi abbindolare dalla sicurezza di aver trovato la chiave interpretativa per leggere agevolmente i propri drammi.

Ancor meglio incalza Umberto Galimberti. Il quale ha offerto, al Festival della Filosofia di Modena Carpi Sassuolo edizione 2017, un’analisi tremendamente lucida sul rapporto dell’umano con la tecnica. E ha, con lungimiranza, mostrato che ciò che più ci inquieta rispetto alla tecnica stessa è inscritto nel nostro destino culturale. È la nostra matrice europea e antropologicamente cristiana che pone il progresso illimitato, l’aspirazione al raggiungimento della perfezione divina, quale ultimo e tuttavia irraggiungibile obiettivo. Definendo, per così dire, lo smisurato desiderio di crescita come un insanabile peccato originale.

Se queste premesse sono vere, se cioè affondiamo i passi in un terreno che, certo ha reso possibile l’intera nostra storia, ma che ora sembra richiedere un drastico ridimensionamento di prospettiva, allora mettersi in discussione critica con la propria cultura di origine non è un vezzo da sfaccendati filosofi. Questo «ripensare» – la crescita, il futuro, e altri argomenti che con il tempo proporrò in una chiave di laboratorio culturale – è l’avvio di un progetto in cui prima di qualsiasi tecnica conta la capacità di immaginare, di trovare un linguaggio e, con esso, di descrivere quelle azioni che possiamo credere coerenti con il cambiamento che vorremmo.

Affronto questo percorso (che ora emerge ma che di fatto ho messo a maturare fin dai tempi di Ricomunica) senza alcuna pretesa di verità. Un laboratorio, per quanto mi riguarda, è un luogo in cui lavorare insieme, aperto al dialogo e alla coltivazione di punti di vista da cui far germinare, piccoli o grandi che siano, semi culturali per una scoperta di sé non orientata alla perfezione. Lo scopo è piuttosto quello di costruire una consapevolezza che aiuti a comprendere, fare proprie e interpretare le opportunità; o le necessità quando esse sono troppo grandi per rovesciarne le sorti in un sol colpo.

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