Sospensioni
La sospensione è più di una pausa di riflessione. È la riconnessione con l’origine, l’istante in cui, attraverso le parole, la realtà prende nuova forma.

Avverto, in questo periodo, la mia immagine sgretolarsi. È un piccolo trauma, una zona di attesa nella quale osservo di volta in volta la progressiva erosione dei pregiudizi positivi – e in parte anche negativi – che avevo attribuito a me stesso. È la messa in discussione delle sovrastrutture che mi hanno sorretto fino a qui, ma che mi hanno ugualmente condannato a percepirmi, in più di un’occasione, come un blocco di marmo senza possibilità di essere scalfito.
Potrei dire che vivo un momento di sospensione. Dove sospendere è qualcosa di più che prendersi una pausa di riflessione dai progetti, dalle intenzioni o dalle vicende del quotidiano. Questa condizione è piuttosto lo svelarsi della scena innocente e originaria in cui tutto deve ancora accadere; è l’attimo intemporale che precede appena il momento nel quale le parole iniziano a ritagliare il contorno delle cose, individuando per queste ultime un perimetro che di lì in poi verrà con resistenza rinegoziato. Del resto, è questa la ragione del fremito che anima le nascite: che si tratti di un proposito, di un progetto o di una nuova vita, la nascita ci pone nel punto infinitesimale che anticipa le parole e che è gravido, allo stesso tempo, di numerose promesse e straordinaria leggerezza.
Esercitata attivamente, la sospensione potrebbe essere intesa come la capacità di navigare sulla superficie delle cose, senza che ancora nessuna di esse faccia precipitare la possibilità nell’azione. Ma questo esercizio richiede anche di misurarsi con una sfida ben più insidiosa: quella di sostenere una indecidibile posizione che costituisce motivo, alternativamente, di malinconia o di smarrimento. La malinconia, per quel senso di abbandono quando – per usare dei celebri versi di Verlaine – «me ne vado / nel vento ingrato / che mi trascina / di qua, di là / come la foglia morta» (Paul Verlaine, Canzone d’autunno, 1866); insomma, quando avverto, appunto, lo sgretolarsi del mio ritratto e io stesso mi sottraggo agli eventi in una libertà che ha il sapore di un’incertezza struggente. Lo smarrimento, perché questo elemento di instabilità tutta interiore contiene i germi di una deriva la quale, mal governata, può condurre sull’orlo di un precipizio. Esperienza decisamente terribile.
Definita in altro modo, la sospensione è un momento di riconnessione con l’origine: con quella fonte intangibile di vitalità da cui discende ogni rapporto con il reale. In un certo senso, sono proprio i sentimenti di malinconia e di smarrimento, per quanto indesiderati, a consentire l’accesso in questo luogo remoto dell’anima e ad aprire la via per una più articolata consapevolezza di sé. L’atto del sospendere, subìto o desiderato che sia, è l’indispensabile strumento di rottura per un ciclo che ha probabilmente esaurito le sue forze creative; ed è un altrettanto strumento di genitura che costringe un nuovo ciclo a venire alla luce. In altri termini, la sospensione denuncia la condizione dell’eterno ritornare che partorisce gli «infiniti» cicli dell’esistenza.
A tal fine, si rende necessaria l’adozione di ciò che potremmo chiamare una «insostenibile leggerezza dell’essere». È, infatti, un contesto gravoso e fragile, ma non per questo meno creativo, quello che concede di riformulare la verità del proprio cammino. La sospensione di cui stiamo parlando si configura, allora, solo in apparenza come mancanza di azione; mentre essa è piuttosto una diversa modalità di intervento che privilegia la cura del tempo, la scoperta delle nostre zone d’ombra e la comprensione del processo con cui significhiamo la realtà, cioè la premessa mediante la quale la realtà si manifesta a noi nella sua concretezza.
Il tema visivo che meglio rappresenta il concetto di sospensione, e di tutto ciò che in esso è contenuto, credo sia l’immagine della strada prossima a una curva: l’evolvere di una via che possiamo soltanto intuire. Questo simbolo traduce, a mio parere, tanto il bisogno di attesa quanto il senso di movimento, tanto la necessità di rallentare quanto la disponibilità a procedere verso un panorama ancora sconosciuto. L’incertezza che si nasconde dietro la curva è, insieme al suo inevitabile fluire, il riferimento a un gesto di sospensione che trovo particolarmente utile per affrontare l’inquietudine della nostra epoca. Federico Leoni, nel presentare il suo saggio Henri Bergson (Feltrinelli, Milano, 2021) descrive così questo atteggiamento che fa di una sapiente astensione (rispetto alle contrapposizioni del Novecento) la ricetta per un ritrovato equilibrio: «Non decidere, ma regolare, non rivoluzionare orizzonti ma riarticolare piani di immanenza, non oltrepassare situazioni ma riconfigurare concatenamenti».
Sospendere, attendere, quasi lasciare a mezza aria le questioni irrisolte, mantenendo però attivo lo spirito di osservazione: potrei includere questo atteggiamento nella serie di esercizi spirituali che vado delineando nel corso della mia indagine. Tutto ciò vuol dire non soltanto concedersi il giusto tempo per riannodare i fili di un discorso sfilacciato di sé che ha bisogno fin dal principio di ricomporsi; vuol dire anche apprendere quell’arte di muoversi, come si diceva, sulla superficie cangiante delle cose. Una superficie della quale noi siamo una porzione aperta in continua modificazione, e, pertanto, subordinata alle sue deformazioni. Una superficie che la Rete, tanto come tecnologia quanto come metafora del nostro tempo, ha reso labile, insicura, destinata a cambiare volto ogni volta che la si guarda, mettendo così in rilievo una natura che ci portiamo dentro e non possiamo scansare.