Spiritualità
La spiritualità è un’azione. È l’incontro e il dialoga con quella sorgente da cui sgorgano le incessanti sfumature contraddizioni della vita.

Il miglior modello di spiritualità che ritengo di avere a disposizione vive accanto a me. Gode delle piccole cose, è aperta alle persone che incontra e, soprattutto, affronta con gratitudine ogni evento ed esperienza, interpretando gli avvenimenti come occasione per apprendere e per esplorare nuove possibilità. In altri termini: per lasciare che la vita si dispieghi in tutte le sue sfumature e contraddizioni. A riprova di ciò, il mio modello sa fare buone domande; e le risposte che riceve, anche quelle apparentemente più banali, sono accolte con generosa curiosità. Con il tempo, ho imparato che non c’è alcuna ingenuità in questo atteggiamento; anzi, la misura di affidabilità e di valore che viene riservata alle relazioni è il frutto di una valutazione sobria, schietta, per certi versi disincantata, capace di non chiedere al di là di ciò che una persona può realisticamente dare.
Diverso è invece lo sguardo con il quale ho attraversato i miei primi cinquant’anni. Da una parte, il desiderio di controllo, dall’altra, la spinta a idealizzare relazioni ed esperienze, hanno confezionato in me una concezione del reale riccha di pretese – e in particolare di pretese rivolte a me stesso – da cui fatico non poco a liberarmi. Una trappola nella quale volontà di controllo e tendenza a idealizzare sono espressioni di una medesima razionalità che ha progressivamente colonizzato la mia esistenza in cerca di immagini stabili e di una sicurezza il cui esito è stata la separazione dalla vita.
Al contrario, possiamo considerare la spiritualità quell’operazione di ricucitura con la vita stessa; quella ricomposizione tra i quattro elementi che costituiscono l’essere umano: il mondo materiale delle sensazioni e dei bisogni; quello interiore dei sentimenti; quello dell’attività logica e intellettuale; e quello dell’immaginazione e dell’intuizione, della creatività e della procreazione, intesa come forza generatrice sia in senso biologico che metaforico.
Se ritorniamo al modello di spiritualità che ho descritto all’inizio, ecco che la gratitudine di cui parlavo rappresenta la condizione per mezzo della quale questa ricomposizione può avvenire. Personalmente, mi sento più a mio agio reinterpretare il termine «gratitudine» con la disponibilità a interrogare l’esperienza, a non darla per scontata, a instaurare un dialogo con la sua irriducibile imprevedibilità. Lo studioso Pierre Hadot ritiene che «da questo punto di vista, ogni esercizio spirituale è dialogico, nella misura in cui è esercizio di presenza autentica a sé e agli altri». Dove «gli altri» rappresentano ciò che di me non posso vedere.
Fuori da ogni connotazione religiosa, stiamo parlando, allora, di una spiritualità del tutto laica. Non una fede, ma un’azione. Un percorso di ricerca e di meraviglia che ha come destinazione ultima il contatto con l’assoluto, con l’infinito: quest’ultimo inteso come la contemplazione limpida, priva di scopo o di giudizio, di quella sorgente da cui sgorgano le incessanti sfumature e contraddizioni della vita. Henri Bergson, nella sua Introduzione alla metafisica, chiarisce che quel contatto, quella spiritualità è già sempre presente, e la sua perfezione è tutt’uno con l’imperfetto tentativo di definirla. «Visto dal di dentro, un assoluto è quindi una cosa semplice. Ma esaminato dal di fuori esso diviene […] la moneta d’oro di cui non si sarà mai finito di dare il resto». Quel resto sono le nostre parole, assolutamente limitate, ma indispensabili se di quella spiritualità vogliamo prendere coscienza.