Trovare un centro
La ricerca di un centro è la premessa per comprendere le forze contrapposte che regolano i nostri cicli vitali.

Dante fa coincidere il centro della Terra con il punto più freddo dell’Inferno, quello abitato da Lucifero, passati intorno al quale si apre la risalita «a riveder le stelle». In effetti, il momento più buio che ho vissuto ha coinciso con uno stato di assoluta immobilità, di cui il gelo invernale è una efficace metafora. Nonostante fosse il punto più basso del percorso, lo stato di torpore totalmente inoperoso in cui mi ero arrestato per qualche mese, era paradossalmente anche il punto di equilibrio; vale a dire, rispetto al percorso, il suo centro.
Oggi mi trovo in una situazione analoga. Poiché, per quanto la temperatura della mia vita interiore sia assai più mite rispetto ai rigori dell’evento precedente, sento di aver raggiunto nuovamente l’equilibrio tra le forze che mi hanno per anni trascinato di qua e di là, in cerca di una meta nella quale poter prendere respiro. Riconosco questa ricorrenza dal fatto che – dopo avere scritto e riscritto innumerevoli volte il profilo della mia identità, e con esso il tortuoso cammino che la scrittura ha rappresentato – mi sono fermato a godere dei frutti di questo lavoro; ma, allo stesso tempo, avverto che ogni tentativo ulteriore di approfondimento non è che l’analisi delle molte sfumature con cui il mio ritratto può essere letto.
Nel piccolo e denso libro su L’esoterismo in Dante (Adelphi, 2001, p. 92), René Guenon scrive che: «Dal punto di vista propriamente iniziatico, quello che abbiamo detto risponde ancora a una verità profonda; l’essere deve prima di tutto identificare il centro della propria individualità (rappresentato dal cuore nel simbolismo tradizionale) con il centro cosmico dello stato di esistenza al quale appartiene questa individualità, prendendolo come base per elevarsi agli stati superiori. In questo centro risiede l’equilibrio perfetto, immagine dell’immutabilità principiale nel mondo manifestato […]».
Dall’esperienza che ho attraversato posso dedurre che ci sono almeno due modi di raggiungere il proprio centro – specificando, peraltro, che «il mio centro», il mio punto di equilibrio sarà unico e inimitabile, del tutto originale in virtù della irripetibilità della mia stessa esperienza. In ogni caso… Da una parte, l’equilibrio è un processo passivo, che arriva più o meno fortuitamente e comunque con un livello di consapevolezza tanto scarso da costituire un doloroso e pericoloso incidente di percorso. Dall’altra parte, invece, la ricerca è attiva e intenzionale; non produce, forse, risultati evidenti, tangibili, ma costituisce un esercizio spirituale e materiale con cui tessere le premesse per quella che Guenon definisce «elevazione».
Ho individuato, in quest’ultimo tipo di processo tre atteggiamenti, che mi hanno aiutato a definire il mio centro. In primo luogo, il giusto tempo, l’apprendere – cosa che si può fare solamente mediante sperimentazione diretta – quale sia il momento più adatto per lasciar accadere gli eventi: una passeggiata, un progetto di lavoro, una cena con amici; e, per converso, imparare a godere delle occasioni, anche contraddittorie, che si presentano sulla scena. In secondo luogo, la giusta misura, l’esercizio del dosare lo sforzo fisico emotivo e intellettuale. Infine, il giusto rapporto, che compendia e integra i due precedenti e che può essere esemplificato nella ricerca delle proporzioni, nella bellezza – si potrebbe dire, nella cura – dei gesti, delle parole, delle intenzioni, degli ambienti e di tutto ciò che può influenzare positivamente lo stato d’animo. Detto per inciso, tutte operazioni niente affatto scontate, rispetto alle quali persino l’abbandono al vizio, alla collera, alla svogliatezza costituisce un impegno a che quell’equilibro si realizzi pienamente.
Ma c’è un’ultima osservazione da considerare: il fatto che il centro sia, come si diceva prima, solo il punto mediano di un itinerario. Sentirmi collocato, sette anni fa come ora, rispetto a un centro, mi ha suggerito e anche predisposto a prepararmi per una fase crescente della mia vita di cui, effettivamente, percepisco alcune avvisaglie. Ancora una volta, però, ribadisco che «crescente» per me non ha alcun significato quantitativo, se non in forma indiretta. L’effetto, piuttosto, come accade dopo un intenso allenamento, è quello di raggiungere respiri più leggeri; fuor di metafora, di vedere coincidere accadimenti e desideri come se si chiamassero gli uni con gli altri e bastasse il minimo sforzo per realizzarli.
Mi è parso, dunque, adeguato usare come immagine del discorso il soggetto dell’Ultima cena, nella quale il Cristo, al centro del dipinto, è il fulcro dell’intero movimento: quello tra le forze complementari e opposte che, come vita e morte, regolano, attraverso una resurrezione, i cicli della nostra esistenza. Mi è sembrato altrettanto opportuno scegliere, al posto dell’originale lieve ed evanescente di Leonardo, una delle varianti delle Sixty Last Suppers di Andy Warhol. A indicare che, nel mondo contemporaneo, «trovare un centro» può essere tanto un’autentico viaggio interiore quanto una spudorata affermazione pop, oggi diremmo «social», che del centro ha solo il nome.