Un’esperienza unica

Crescere, diventare consapevoli è ricomporre una frattura. Tra l’unità dell’esperienza interiore e quella frammentata e molteplice delle cose e del mondo.

mandala-5556094_1280

Sto scrivendo: è un’esperienza unica. Ma uso la parola «unica» nel senso letterale del termine; cioè che coinvolge in un unico movimento le diverse parti del mio corpo, della mia mente e del mio spirito; e che in tal modo rende l’esperienza stessa indivisibile e irripetibile, incapace di distinguere le azioni e i singoli elementi che vi partecipano. I miei pensieri ribollono in qualche angolo della mia testa; i sentimenti si scatenano da un epicentro che posso localizzare indicativamente nel centro del petto. E tuttavia avverto la potenza di questo flusso distribuirsi quasi istantaneamente in ogni parte del corpo; come se l’intuizione che ha preso vita non appartenesse solo a una porzione delimitata di me, ma alla totalità di ciò che in questo preciso momento sento di essere. Il pensiero scivola nello sguardo che, a mia insaputa, si modifica e assume espressioni di cui non riesco a constatare la natura e che, probabilmente, mi sorprenderebbero, quasi che non mi appartenessero. Ma il percorso dell’intuizione prosegue. Prima nella gola che sussurra, mentre detto a me stesso quello che intendo scrivere; poi il segnale si allunga lungo le braccia, raggiunge le mani e, infine, si infila nelle dita che picchiettano ripetutamente sulla tastiera del computer. Non c’è soluzione di continuità tra la mia parte spirituale, razionale, emotiva e corporea. E neppure tra me e gli strumenti di lavoro che sto impiegando: lo schermo sul quale guardo apparire parole e frasi, il tavolo che lo sorregge, la sedia che mi sostiene, il pavimento su cui mi appoggio e l’ambiente circostante, disseminato di oggetti quotidiani, che mi contiene e accoglie il tempo produttivo della mia attività.

Potrei dire con una metafora che, nel corso del tragitto che ho descritto, ho ingaggiato un combattimento tra l’ispirazione che sgorga da un punto cieco e indefinito del mio essere e le parole che affastellano il mio «campo visivo» per cercare di catturare il brulicante mondo delle suggestioni, aggrovigliate in una unità di fondo che non sarà facile tradurre nella struttura di un discorso. Ma appena avrò terminato la stesura del testo, le parole segneranno la rottura dell’unità, dell’esperienza intima che ho provato, e acquisiranno la forma più propria del linguaggio: uno strumento che trasforma l’impalpabile paesaggio interiore in una mappa semantica definita, dotata di punti di riferimento che individuano il significato che intendo comunicare. Insomma, acquisita una struttura e un’autonomia che me lo rendono in qualche modo estraneo, il testo che ho redatto sarà ormai fuori di me, sarà un oggetto tra tanti che ritaglia una porzione del mondo esterno. Prima ero un tutt’uno con esso; ora siamo in due: separati, distinti, come unità singole che posso contare.

Henri Bergson, nel suo Saggio sui dati immediati della coscienza (Cortina Editore, 2002), affronta la distinzione tra esperienza interiore ed esteriore con straordinaria perspicacia e porta l’attenzione alla differenza tra questi due domini. Il primo, l’esperienza interiore, è un’unità indivisibile e continua, cui Bergson attribuisce il nome di «durata». La sua patria elettiva, per così dire, è il tempo. Il secondo, invece, l’esperienza esteriore, si realizza nello spazio e ha come caratteristica principale quella di enumerare gli oggetti percepiti, di individuarli uno a uno come parti separate e indipendenti. Un po’ come accade quando, nell’unità intuitiva di un «cesto di mele», posso contemporaneamente cogliere, con le mie funzioni logiche, la mela singola per afferrarla estrarla dal cesto e nutrirmene.

Ora, unità e molteplicità – ma, sulla scorta di Bergson, potremmo dire anche: interiorità ed esteriorità, o tempo e spazio – sono le due dimensioni fondamentali della nostra esistenza. Sono gli ambiti entro i quali essa si costituisce. All’interno, l’intimo e indistinguibile coinvolgimento di tutto il nostro essere ci fa agire in maniera spontanea e irriflessa, senza renderci conto esattamente di ciò che stiamo pensando, dicendo o facendo. Un bacio, uno scatto d’ira, un momento di entusiasmo, l’improvvisa sensazione di essersi innamorati di qualcuno – sono tutti esempi di una corrente che ci attraversa e che non possiamo dominare. Ma quando queste esperienze diventano parole e pensiero, e meditiamo sopra ciò che è accaduto come se quegli istanti non appartenessero più a noi, allora poniamo quelle medesime esperienza nel nostro spazio mentale; le delimitiamo circoscrivendole con confini ed etichette.

Che cos’è, allora, la consapevolezza se non la linea di demarcazione che separa o unisce queste due dimensioni – unità e molteplicità, interiorità ed esteriorità, tempo e spazio? Le separa, quando l’una prevale sull’altra e dà luogo a un’esistenza dominata e sconvolta dalle passioni, o determinata e inquadrata da schemi così rigida che finiscono per inaridirla (a dire la verità, ho abusato di entrambi gli estremi!). Le unisce, quando invece riesce a stabilire un canale di comunicazione tra questi due lati dell’esperienza; una correlazione che ne mostri l’intima connessione e influenza.

Quando ho cercato di comprendere cosa potesse essere per me la «crescita personale», ho ravvisato in questa espressione la ricerca di un equilibrio che abbraccia i quattro ambiti della vita umana: quello intellettuale del linguaggio e del pensiero; quello emotivo e sentimentale; quello intuitivo, creativo, immaginativo; e quello materiale dei bisogni e delle necessità pratiche.

Naturalmente, non sto dicendo nulla di nuovo. Gli anni e le ricerche mi hanno persuaso a credere che tanto le grandi religioni quanto i miti antichi sulla creazione hanno posto al centro della loro narrazione il complesso e misterioso rapporto tra unità e molteplicità. Da esso dipende la concezione stessa di «creazione del mondo» e di «Io»: vale a dire di quella frattura che, a un certo punto dell’evoluzione, ha generato un «dentro di me» e un fuori di me» per noi oggi così ovvio. Secondo le dottrine cabalistiche, parole e numeri sono gli strumenti creatori della nostra realtà esistenziale. Parole e numeri significano: linee con cui delimitare e proporzioni con cui mettere in rapporto gli oggetti dell’esperienza quotidiana, incluso se stessi. In questo senso, le figure individuate dai mandala sono il percorso a ritroso dell’evoluzione. Sono, in qualche misura, la restituzione della molteplicità e del disordine che di essa avvertiamo all’unità originaria. Sono, mediante la loro contemplazione, la riconquista di un tempo e di un movimento – insomma, di una «durata» – che il mondo tecnicizzato, e pur necessario, delle misure e delle etichette non si sforza più di riconoscere.

Articoli simili