Un’intelligente terapia delle passioni
Le passioni sono tracce di un percorso che ritrae il proprio rapporto con il mondo. Ricostruirle significa restituire a se stessi senso, scelte e possibilità di azione.

Ho un bel ricordo delle mie esperienze d’amore: nonostante gli strappi e le ferite che hanno provocato, nonostante le inconcludenze e le aspettative disattese. Ma, sopratutto, ho un bel ricordo della rielaborazione che, in particolare la scrittura, mi ha permesso di svolgere. Un’accurata ricerca tutt’altro che conclusa – e, anzi, bisognosa di ulteriori scarnificanti indagini – che mi fornisce una mappa sentimentale con la quale rappresentare la mia vita.
A questo proposito, vorrei indicare qui tre significati cui mi riferisco quando parlo di intelligente terapia delle passioni. Il primo riguarda la parola stessa «intelligenza», della quale è nota l’espressione «intelligenza emotiva»: cioè quell’«aspetto dell’intelligenza legato alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie ed altrui emozioni». A questa accezione, che definirei funzionale, mi piacerebbe aggiungere una diversa sfumatura: la possibilità di individuare nelle emozioni e nei sentimenti uno spazio interpretativo in cui nulla è ancora definito né definitivo, e può dunque essere modellato secondo indirizzi nuovi e inaspettati. Emozioni e sentimenti sono, in altri termini, uno spettro buio e misterioso, rispetto al quale le parole diventano il metodo per costruirsi i punti di riferimento necessari a inquadrare la propria esperienza vitale. In questo senso, le parole sono le azioni che, nel dialogo interiore con me stesso, compio per assicurare all’accadere della vita: da un lato, una direzione altrimenti sopraffatta dal caos; dall’altro, una via di uscita quando le modalità con cui ho definito la mia vita non mi appagano, non rendono la mia esistenza degna di essere percorsa.
Il secondo punto riguarda il carattere terapeutico di questa indagine. Poiché è chiaro che una meditazione chiarificatrice sul non detto (e sul non dicibile) dell’esperienza umana ha valore di rimedio per gli affanni e per le preoccupazioni; i quali proprio nell’ambiguità dell’indicibile trovano quello spazio fecondo che rende l’animo irrequieto. Da questo punto di vista, la filosofia è stata per me una guida essenziale; una via che mi aiutato a inquadrare le passioni; che ha dato loro un contesto entro il quale essere comprese; che ha definito i limiti oltre cui è inutile spingersi alla ricerca di una risposta esauriente per tutto; e che, infine, ha alleggerito il modo in cui affronto e accolgo le vicende del quotidiano.
Il terzo elemento, che in fondo richiama e sintetizza i precedenti, è la funzione, per così dire, commemorativa dei sentimenti; cioè, i sentimenti intesi come memoria stratificata dell’esperienza di cui essi sono testimoni, portavoce. Umberto Galimberti chiarisce, in una breve riflessione sull’Analfabetismo emotivo, che i sentimenti hanno carattere cognitivo e che, come tali, non sono dati in dotazione per natura, ma sono una costruzione culturale; un po’ come accade per le parole, nelle quali vengono depositati il sapere e le sperimentazioni umane sulla vita. Come in un dipinto di Kandinskij – per esempio Due movimenti del 1924 (immagine di copertina) – la denominazione degli stati d’animo, nel mare profondo e burrascoso dell’inconscio, fa emergere ritmi e colori con i quali costruire un senso degli eventi. Non il senso; ma un senso tra gli infiniti possibili. Le passioni, e le parole che le descrivono, diventano sentieri che, percorsi a ritroso, illuminano i motivi delle nostre scelte, i passaggi con cui esse trovano la loro ragion d’essere. Al contempo, quei nodi della memoria sono anche punti da cui organizzare un significato alternativo delle esperienze; un significato che non contempla soltanto il passato ma si estende al futuro che sta per arrivare.
Allora sarà meno doloroso affrontare gli strappi, le ferite, le inconcludenze, le aspettative disattese: ora tappe irrinunciabili di questo rinnovato, ridisegnato cammino. Il patire, il subire – ciò che di fatto la parola «passione» sta a indicare – si trasforma in un agire compiuto. Le passioni, che pure rimangono come una prova dell’irraggiungibile assoluta conoscenza di sé, diventano il canovaccio sul quale interpretare una storia sempre aperta; riscritta istante per istante.
In estrema sintesi, le passioni sono le tracce, i frammenti, i segni di un percorso che ritrae il proprio rapporto con il mondo. Ricostruirle, fare di esse genealogia, significa restituire a se stessi un senso dell’esistenza, una visione delle cose senza la quale il futuro appare più incerto e forse insostenibile. Il poeta antico Lucrezio ha tradotto questa esperienza di ricerca con un’immagine di straordinaria bellezza:
Dolce, quando nel mare immenso i venti sconvolgono le acque, contemplare dalla riva l’affanno grande di altri; non perché l’angoscia di un uomo dia gioia e sollievo, ma perché è dolce vedere da che mali tu stesso sei libero.
Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, II, 1-4, UTET, 2017