Utopie
Il cambiamento è la distanza tra il presente e la più caratteristica delle capacità umane: quella di dire come non stanno le cose.

Ho trascorso la mia estate immergendomi nella lettura di un interessante libro scritto da Paolo Virno. Certo, interessante per chi si vuole avventurare in una comprensione puntuale del linguaggio; ma non per questo meno fecondo di implicazioni che su di me, devo dire, hanno avuto conseguenze illuminanti. Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica mi aveva incuriosito già qualche anno fa grazie a una recensione apparsa su doppiozero. E dopo un tentativo finito non troppo felicemente, la scorsa estate ne ho ripreso la scoperta per arrivare a deglutire tutte d’un fiato quelle conclusioni che hanno aggiunto un tassello importante alla mia riflessione.
La sostanza del libro (la potete ripercorrere rapidamente nel video qui sotto) ruota intorno all’essenza della negazione. Apparentemente di così scarsa importanza, il connettivo sintattico “non” è, nelle parole di Virno, la chiave di volta per capire la profonda essenza dell’umano: la capacità cioè, attraverso il linguaggio, di dire come non stanno le cose. E, con questo gesto, di distaccarsi dall’attualità del presente per abitare luoghi e immaginazioni che ci portano al di là del tempo e dello spazio. Lo scarto prodotto dal “non” equivale, insomma, alla distanza tra il presente e il nostro poter pensare altrimenti da esso; tra il presente e ogni possibile cambiamento.
Ma allora perché un Paese non cambia? Perché un’azienda non innova? Perché una persona non evolve? Se ci pensiamo, è proprio l’incapacità di dire come non stanno le cosea refrigerare ogni possibile movimento; a rendere difficoltosa la presa di distanza da quel presente in cui siamo ordinariamente coinvolti sotto forma di urgenze, mode, necessità di assecondare o rigettare richieste, obblighi e convenzioni. Sulla distanza, l’accorciarsi dello scarto tra sé e il presente (e a questo proposito evoco solo sommariamente i social e la messaggistica istantanea) penalizza qualsiasi tipo di cambiamento, perché ci costringe a essere tutt’uno con le nostre esperienze.
Ecco allora che lo sviluppo di un pensiero critico, di un saper dire come non stanno le cose, va di pari passo con l’abilità di individuare luoghi e scelte che ancora non esistono, cioè di progettare un futuro. L’esercizio dell’utopia, per quanto futile e inefficiente, è il migliore tentativo di sfuggire all’eterno presente che schiaccia, demolisce, uniforma; che impedisce, in una parola, di essere umani.
Come accade nelle aspirazioni fantastiche dei bambini, l’utopia non è un fine ma un percorso di allenamento alla propria realizzazione. Solo chi va in nessun luogo ha davanti a sé la possibilità di immaginare tutti i luoghi che desidera.