Vie per la salvezza
Il percorso iniziatico e l’utilizzo dei simboli rappresentano un accesso al sacro, un modo per restituire consistenza al senso del tempo e a quello della vita.

I viaggi iniziatici non sembrano avere più il richiamo di un tempo. Un’esperienza che mette a dura prova il senso dell’esistenza o che ne chiama in causa gli aspetti contraddittori, soprattutto se estrema, è considerata un incidente da cui tutelarsi, un evento al quale porre rimedio. L’affermazione di Michela Murgia, secondo la quale «il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono», è un esempio di come questa concezione possa essere rovesciata: una situazione problematica si trasforma da devianza rispetto alla norma stabilita in contrassegno di valore che impreziosisce la storia personale.
Al contrario, l’intervento correttivo che le norme prevedono consiste, il più delle volte, nella compensazione di una mancanza che l’evento critico ha portato alla luce e che rende l’individuo un soggetto impoverito sul quale intervenire. In altre parole, questo quadro di valori ravvisa la crisi unicamente come disturbo, anomalia, variazione indesiderata di uno standard che una certa intenzione, e il potere che la esercita – non in maniera necessariamente negativa –, ha preventivamente elaborato. Tutto ciò che non è riconducibile allo standard, ma anche tutto ciò che sfugge al setaccio logico del linguaggio con cui lo standard è stato costruito, diventa un elemento alieno che va espulso dalla cornice di senso nella quale l’evento è collocato.
Con la perdita del rito iniziatico è caduta in disgrazia anche la dimensione simbolica che l’accompagnava e che forniva una sorgente di significato di fronte ai momenti più o meno drammatici dell’esistenza. L’esperienza del dolore e della sua assurdità – che è riassunta in maniera eloquente dalla domanda «perché proprio a me?» – prende il tono sconcertante e minaccioso di un dubbio che non trova risposta e che, per questo, appare come un’ombra angosciosa, sottile ma ineludibile, incombente sul quotidiano.
Il filosofo Paolo Dal Prà ha efficacemente descritto questa condizione di insicurezza strutturale ricostruendo in maniera sintetica i caratteri della modernità e i motivi per i quali l’individuo – nozione tipicamente moderna – si trova a vivere sentimenti di spaesamento. Il moderno – dall’avverbio latino «modo», cioè adesso, ora – è l’evo che assolutizza il presente; è l’epoca che rompe con il passato e con la sua oscurità, poiché quest’ultimo è considerato un residuo di ignoranza. Come accade per i bambini, la modernità valuta il soggetto in quanto vittima di uno stato di minorità da cui è chiamato a uscire: mediante la luce della conoscenza, la stipula del contratto sociale, l’emancipazione dalla dimensione simbolica derubricata a semplice superstizione. Il futuro è il momento della risoluzione, se non della redenzione, che avviene attraverso la conquista di risultati concreti e misurabili, come per esempio: titolo di studio, reddito, etichetta professionale; risultati nei quali l’incerto, l’ambiguo, il paradossale, il contraddittorio non possono trovare posto. Il periodo che abitiamo, infatti, è riduzione alla misura nel momento stesso in cui pone la ragione come unico arbitro del reale; Dio, anima e mondo (mondo come unità metafisica) sono esperienze che appartengono all’universo dei concetti e che risultano pertanto impraticabili nella formulazione del giudizio.
Caratteristica della modernità, però, è anche il suo percorso evolutivo. Per un verso, l’andamento esponenziale dello sviluppo tecnologico; per l’altro, la progressiva contrazione del tempo che ne deriva. Se il concetto di «presente» all’inizio della modernità poteva coprire ancora un considerevole lasso di tempo, dagli inizi del XX secolo il presente si è progressivamente ristretto a una manciata di decenni, a causa della rapidità con cui lo sviluppo tecnologico è andato affermandosi. Che cos’è, infatti, oggi il presente se non un istante sempre più effimero che rende obsoleto tutto ciò che lo precede? Non è questo che i social media più accreditati presso il grande pubblico (Instagram e TikTok in modo particolare), incoraggiano quando fanno dell’istantaneità dell’immagine o del video la loro peculiarità prevalente?

In questo contesto di accelerazione, quanto più il presente si contrae, tanto più l’unica via di fuga dall’angoscia e dal dolore diventa la sicurezza materiale, immediata e tangibile di un risultato; un elemento cioè che fornisce stabilità, ma che non per questo è meno esposto all’erosione del presente messa in atto dall’ideologia moderna.
Ciò però non vieta, almeno nella vita personale, di fare leva sulla dissoluzione del presente per invertirne la direzione. Il recupero del viaggio iniziatico – che, come ha mostrato Chris Vogel nel libro Il viaggio dell’eroe (Audino, Roma, 2005), è uno schema narrativo che attraversa i millenni – è un modo di restituire al presente uno spessore maggiore di quello che l’attualità gli consente di avere. Il viaggio dell’eroe è un percorso che ritorna su se stesso e che appunto per questa ragione ricava al proprio interno il tempo necessario per svilupparsi. Al mondo della vita ordinaria, dominata dalla velocità, si sovrappone un mondo straordinario per sua natura sottratto all’impellenza del presente. Dal momento che il tempo non è più una linea che va dal punto A al punto B, il viaggio nel mondo straordinario implica una durata indefinita: al suo interno, come nell’utero di una gestante, si realizza la trasformazione che la storia in qualche modo contiene fin dal principio. il piano straordinario dell’esperienza è aperto all’imprevedibile, all’ambiguo, al contraddittorio; in esso il presente si dilata verso le cause che lo hanno generato (passato) e si distende verso gli effetti che i suoi semi lasciano presagire (futuro), ma che solo nell’avventura diventano fecondi.
Di qui la dimensione esistenziale riprende consistenza. Ciclo dopo ciclo, lo schema del viaggio dell’eroe produce una molteplicità di significati che convivono, si stratificano e danno forma a un senso in continua evoluzione. Un senso che contiene, rinnovandola, tutta la storia vissuta.

Se il tempo ritrova il suo spessore, ecco allora che non è più il risultato immediato a determinare le scelte e la sorte del percorso. Per quanto quest’ultimo resti aperto – indefinito come il tempo che lo descrive – sarà un processo di apprendimento a determinare l’esito della vicenda; nella dinamica dell’eroe, gli eventi non sono distinti dal loro significato né dall’identità dell’eroe stesso: quest’ultimo, imparando, si costituisce insieme a essi e, reciprocamente, è la ragione del loro accadere. Tornando all’esempio iniziale, la malattia non è qualcosa che ho, ma qualcosa che sono; non è un accidenti che divora un’identità precostituita, ma la costituzione stessa del mio modo d’essere.
Lo spazio straordinario, perciò, è il luogo in cui il linguaggio simbolico ripristina la sua potenza generatrice. In esso le differenze, le ambiguità, le contraddizioni non solo sono permesse, ma coesistono tra loro, come sospese, senza la necessità di escludersi a vicenda. Una storia d’amore complicata, una crisi di mezza età, uno sconvolgimento esistenziale, una frattura di senso, un disorientamento nelle scelte o nella direzione di vita sono esempi che incarnano la relazione di opposti apparentemente in antitesi tra di loro; ma «ciò che è opposto concorda – sostiene Eraclito – e da ciò che discorda deriva una bellissima armonia» (Frammenti, 14a, BUR Rizzoli, Milano, 2016).
Il riconoscimento del valore e dell’azione dei simboli sulla vita concreta dell’individuo – così inviso alla cultura contemporanea da essere rimosso, o quantomeno marginalizzato nel dibattito pubblico – è in definitiva, la restituzione della sfera del sacro che l’essere umano concede a se stesso e che la via iniziatica gli rende intellegibile. Ma «sacro», in tal senso, non significa altro che un punto di vista esterno al proprio sguardo sul mondo: il punto di vista di Dio, la possibilità di ripensarsi in relazione a uno scenario più grande rispetto ai limiti che la visione personale, per condizioni ed esigenze pratiche, impone.
Tuttavia, sacro e profano, ordinario e straordinario – ma si potrebbe anche tradurre: piano della concretezza e piano immateriale – vanno pensati come compresenti: l’uno retroagisce sull’altro, e viceversa, vivificando ogni volta il senso che ne adegua la direzione. D’altra parte il piano immateriale non può eludere l’esperienza senza diventare pura idealità; né può essere abbandonato in vista delle esigenze concrete senza ridurre queste ultime a mero materialismo. La domanda «perché proprio a me?», che dà luogo, il più delle volte in maniera involontaria, al percorso di iniziazione, rompe la dicotomia con la quale la sfera del sacro si appiattisce sul profano. A seguito di questa domanda, paradossi e contraddizioni del nostro vissuto si ricompongono in una visione unitaria, conducendo chi la domanda se la pone verso un orizzonte di salvezza che ha il suo fondamento tutto nel presente. Il Regno dei Cieli è già qui ripete Cristo lungo il Vangelo.
Nonostante lo sconcerto che solleva, la domanda «perché proprio a me?» testimonia il contatto con l’assoluto e, così facendo, incorpora nell’istante presente il senso di una vita intera.