Memoria

Ogni persona è l’incontro con una storia che la trascende, ma che in quanto umana ha scritto dentro di sé. Dare senso all’esistenza è ricordarla e darle parola.

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Nel corso degli ultimi cinque anni ho tenuto un diario della mia esperienza intellettuale. Ho tenuto traccia dei pensieri; ho osservato come si sono modificati al trascorrere del tempo; ho eroso pregiudizi mettendo questi ultimi di fronte alle contraddizioni che via via andavano emergendo. Un lavoro che, a essere sinceri, costa una certa fatica ma che, per contro, mi sta consegnando un senso di solidità per me inedito. Anche questi Nutrimenti sono parte del processo. Sono il momento della settimana durante il quale le parole che escono dalla tastiera del computer rivelano, non di rado, riflessioni cui non avevo dato peso o spazio, e che in quell’istante si manifestano con il loro portato di provocazione.

Questa operazione, che è in parte di cronaca e in parte di scavo, ha una duplice funzione. In primo luogo, è il tentativo, reiterato e necessariamente incompiuto, di dare parole a un flusso di coscienza che mescola passato presente e futuro; e che, in questo senso, ha bisogno di trovare un ordine, una successione di relazioni con la quale tessere un filo esistenziale stabile e desideroso di significato. D’altra parte, però, essa è anche l’incontro con una storia che mi trascende, e che pure ritrovo incisa dentro di me, leggibile (o quantomeno interpretabile) grazie alle parole che vado riconoscendo di volta in volta.

Ciò che mi trascende sono, per l’esattezza, le contraddizioni, le incertezze, le sorprese, le emozioni che la meditazione sul mio vissuto continuamente mi propone. È scoprire che i modi consolidati di pensare mostrano la loro fallacia inchiodandomi alle mie debolezze. Qualche volta provo vergogna per quello che esce. In molte occasioni – come questa – ne faccio tesoro e, dove possibile, condivido il percorso nonostante le resistenze che mi vorrebbero sopraffare.

Alla luce di quanto finora detto, posso definire questa operazione con il concetto di memoria. L’atto, cioè, con il quale lascio emergere dal mio «porto sepolto» – per usare un’espressione di Ungaretti – i condizionamenti e i modelli culturali determinati dalla famiglia, dall’educazione, dalla scuola, dalle relazioni, dal lessico con cui tutte queste esperienze hanno potuto esprimersi; e, in una misura non trascurabile, dalla stessa biologia. Si potrebbe dire che la memoria di cui stiamo ragionando è l’azione ricostitutiva che traccia il nostro percorso esistenziale a partire dalla ricerca di un’origine. Ma, ancora meglio, di un’origine comune radicata nelle profondità remote della storia umana.

Nietzsche ne parla nella Genealogia della morale, rilevando ciò che per la sua visione sono gli aspetti degenerativi: «All’interno della primitiva comunità di stirpi – parliamo di epoche primordiali – la generazione vivente riconosce ogni volta un obbligo giuridico verso la generazione più antica che aveva fondato la stirpe». E subito dopo aggiunge che: «Se immaginiamo questo rozzo tipo di logica spinto sino all’estremo, gli antenati delle stirpi più potenti dovranno finire per trasformarsi, grazie alla fantasia del timore in aumento, in qualcosa di mostruoso, ed essere infine respinti nel buio di una tetra e inimmaginabile divinità – l’antenato finisce, necessariamente, per trasfigurarsi in un dio» (Genealogia della morale, II, 19).

Vorrei rovesciare il ragionamento e dire che ripercorre all’indietro l’ipotesi di Nietzsche, andare in cerca della propria origine, coltivare le parole di questo racconto, trasforma la memoria in una generatrice di significati. Ricordare diventa, etimologicamente, «riportare nel cuore», ricondurre le esperienze a un tragitto che sono chiamato a immaginare per dare corpo alla realtà; ma, allo stesso tempo, per dispormi ad avvertire che qualcosa più grande di me è all’opera dentro di me, secondo quell’atteggiamento che siamo soliti connotare come «spiritualità». La memoria diventa spessore; si distingue nettamente da quella definizione meccanica e lineare con la quale la scuola che abbiamo frequentato fa coincidere la conoscenza con la memoria fine a se stessa; vale a dire, con il riempire la testa di nozioni anziché indagare l’umanità – ferina, materiale, ma anche emotiva generativa e intellettuale – che dimora in ciascuno di noi.

Questa linea di tendenza, del tutto riduzionistica, è peraltro lontana dalla possibilità di estinguersi. Se pensiamo a quale valore assume il termine «memoria» nel panorama digitale, possiamo verificare che, non solo la conoscenza, ma anche l’intelligenza è annessa alla capacità quantitativa di memoria di cui la macchina dispone. Ricorro, a questo punto, a un breve ma efficace episodio del podcast philosophy killed the tech, curato da Paola Liberace; in cui la scoperta freudiana dell’inconscio marca inequivocabilmente la differenza tra l’ambiente umano e quello tecnologico. Quell’Altro da me, che mi colma di incertezza e di paure, che mi trascende e che pure trovo scritto nella mia parte più misteriosa, è la sorgente primaria da cui attingere per restituire senso e vitalità alle esistenze individuali e collettive (metto in questo contenitore anche il mondo del lavoro e delle imprese). La memoria non è che il tentativo di un incontro. Un’incessante setaccio di parole che, nel suo farsi, assume il canto evocativo di una preghiera.

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